Quando arriva la domenica sono sempre molto felice di vedere
tra gli articoli de La Repubblica la firma di Eugenio Scalfari, uomo ormai
abbastanza maturo negli anni ma che ha mantenuto una buonissima lucidità e
acume facendo invidia a molti miei coetanei. Ma l’articolo di oggi (7 Luglio
2013) proprio non mi convince: vorrei esporre solamente le mie perplessità al
riguardo magari trovando il principio di un dibattito fruttuoso.
L’articolo reca il titolo “ Le risposte che i due papi non
hanno ancora dato”. L’articolo si propone come obiettivo quello di sondare le
risposte che il papa emerito Ratzinger e papa Bergoglio hanno saputo fornire
nella prima enciclica del nuovo pontificato a proposito della domanda
esistenziale dell’uomo: “chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo”. In particolare
Scalfari si sofferma su una domanda esistenziale che è apparsa sempre nella mente
degli uomini, da Dante a Pirandello fino alle voci poderose dei pensatori più contemporanei:
“esiste una sola verità o tante quante i singoli individui e la loro mente
ragionante configurano?”.
Il problema dell’articolo di Scalfari concerne proprio l’esclusione
di una via e di un confronto tra due alternative, che non si escludono ma si
completano vicendevolmente. Vediamo dove e perché.
L’analisi di Scalfari parte proprio dalla doppia natura di
Gesù: divina ed umana. Il giornalista analizza i 40 giorni nel deserto quando
il figlio di Dio fu messo alla prova dal demonio. Le tre tentazioni subite
nella natura umana furono vinte: così liquida l’argomento Scalfari aggiungendo
la sola postilla che riguarda la forza divina che risiede nella vittoria delle
tentazioni.
Le tentazioni non furono vinte solo perché Gesù era figlio
di Dio, ma perché queste tentazioni possono essere sconfitte dall’uomo, dall’individuo
normale perché Dio ci ha fatto a propria immagine e somiglianza. Ma perché
sconfiggere delle tentazioni? A che pro non essere sedotti dal bene illusorio
che può donare una qualche soddisfazione terrena? Perché questa tentazione
illusoria porta ad una tristezza intrinseca non individuabile immediatamente ma
che si infiltra nell’animo come piccola cellula tumorale: aumenta, si allarga,
si incancrenisce e forma metastasi in tutto il nostro essere. Le tre tentazioni
sono le tre tentazioni nella vita di ogni uomo: quella del pane (ovvero la
comodità: quante volte non facciamo, non ci prodighiamo perché vogliamo soddisfare
la nostra comodità, il nostro spazio per il nostro corpo ed essere? È il
principio di un egoismo che non ci fa uscire da noi), delle sicurezze (dove riponiamo
la nostra vita? In quale sicurezza? Quella sicurezza diventerà la nostra
schiavitù perché avremo sempre paura di perderla non riuscendo a uscire dal cerchio
che ci tiene avvinghiato e soggiogato ed essa), dell’idolatria (il potere, il
successo, l’intelligenza sono tutti idoli che ci succhiano l’anima ogni giorno
e quelli da cui pensiamo derivi la vita: ci votiamo a loro perché è tramite
loro che ci sentiamo amati tramite lodi, riconoscimenti ed altro). Liberandoci
da queste tre tentazioni che avviene lo svuotamento dalla natura umana per
sentire un primo passo verso la libertà.
E il secondo passo? Scalfari parla in questi termini “Tentò [Gesù] un miracolo: far scomparire l’amore
per sé concentrando l’intero flusso sugli altri e addirittura prescrivendo ai
suoi discepoli di amare il prossimo come se stessi. Attenzione: come se stessi.
L’amore per gli altri on aboliva l’amore per sé ma si elevava come poteva allo
stesso livello di sentimento”. Lo sbaglio di Scalfari è quello di aver considerato
i due amori coesistenti nell’individuo: amare gli altri come si ama se stessi.
Ecco il secondo idolo da abbattere: se stessi. Il giornalista non ha compreso
che l’amore per se stessi ha valore retroattivo: non si può amare gli altri
continuando ad amare se stessi. E’ impossibile perché altrimenti non
perdoneresti, non chiederesti scusa, non pregheresti per i tuoi nemici. E’ nel
momento in cui si è eliminato l’amore per se stessi (che si manifesta
quotidianamente nell’orgoglio, nella superbia e nella sopraffazione verbale o
di carisma) che si può amare l’altro. E vi accorgete quando riuscite
maggiormente ad amare l’altro? Esattamente quando vi riconoscete non perfetti e
migliori in un punto, che sarà quello che non vi farà giudicare l’altro e che
anzi ve lo farà amare. Se un uomo continua ad amare se stesso non riuscirà a perdonare anche quando
ingiuriato: continuerà a sentire l’accusa sulla sua persona (tematica cara
anche a Seneca) e sentirà l’accusa e l’ingiuria quando sovrastima se stesso e
si ama troppo: indi per cui non si può amare l’altro se non si è abbandonato
alle spalle l’amore per se stessi.
Infine Scalfari confuta la risposta dei papi “la verità è la
fede”. Per lui non è soddisfacente. Ma cosa significa fede in realtà? Significa fiducia
in Dio. E che significa avere fiducia in Dio? Significa fidarsi di qualcosa
che la mente umana, razionalmente non concepirebbe. Ovvero? Abolire la nostra
progettualità, la nostra razionalità, intelligenza, schematismo di vita,
aspettativa di vita, giustizia di vita e moralismo di vita perché? Perché tutto
ciò si pensa essere creato e generato da noi stessi, artefici e creatori della
nostra vita e giustizia di vita. Solo così si abolisce l’amore verso se stessi
e si comincia ad amare l’altro. Solo lasciando se stessi e la propria rocca
costruita con perizia che si può amare l’altro, essere liberi da se stessi,
fidarsi dell’ignoto e non delle proprie forze. Questa è l’unica verità di vita.
Perché altrimenti ognuno porterebbe la propria verità (che è razionalmente
giusta se spiegata e plausibile), ognuno parlerebbe la lingua della propria
ragione accettabile e nessuno uscirebbe fuori da se stesso per amare l’altro.
Allora la fede ha come radice l’abolizione dell’idolatria del proprio essere
per aprirsi ad una giustizia diversa da quella che noi ci fabbrichiamo: fidarsi
come principio di liberazione, come lingua universale e di amore reale.
Miriam Di Carlo
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