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giovedì 21 novembre 2013

Perché non sono d’accordo con Domenico Naso de “Il fatto quotidiano” a proposito di #Gazebo.


Leggo con interesse la critica che il giornalista televisivo de “Il Fatto” ha pubblicato circa il format “Gazebo” in onda il martedì, mercoledì e giovedì in seconda serata su Rai3. Premetto onestamente, che seguivo Zoro solamente in “Parla con lei”, rimanendo rapita dai video sulle diverse anime del Pd. Quindi salvo il Blog di Diego Bianchi e questi passati esperimenti televisivi, non posso fare un confronto a 360°: ma proprio per questo la mia testimonianza potrebbe essere maggiormente valida.

Il titolo di Domenico Naso già esordisce con un paragone che forse, tranne la fascia oraria, non regge: Gazebo come Porta a Porta ma di sinistra. Porta a porta è tutt’altra cosa: nello studio di Vespa sono invitati esponenti politici e il vero fulcro è il talk show politico, che ospitò un tempo anche Berlusconi e Prodi. In Gazebo non c’è alcun talk show: non si assiste all’accavallarsi di voci, di discorsi, di scontri verbali e non. Il format di Bianchi, Salerno, Sofi, D’Ambrosio (in arte Makkox), non nasce dal gusto per il diverbio improvvisato ma nasce come un giornale televisivo, per chi non l’avesse capito. E’ una testata giornalistica, con tanto di vignetta satirica (al posto di Altan): c’è spazio per il reportage, per l’indagine che potrebbe sembrare distorta e grottesca ma che rivela quanto sia paradossalmente reale (Mirko Matteucci: e posso testimoniare che la fauna che tocca tangenzialmente i vari taxi rappresenta un campionario variopinto e quanto mai ideale del paese, sia con una visione interna proveniente dalle varie Italie, sia con una visione esterna proveniente dall’Estero), c’è posto per un commento pacato, irriverente ma non troppo, veritiero ma mai pregno di quell’autocommiserazione rasente il suicidio di cui il M5S tanto taccia il PD: una trasmissione garbata, la definirei. Forse lontana dall’ANTI-garbo e intemperanza cui siamo stati abituati dalle ultime elezioni. Certo, i simbolismi, le ironie e i significati lasciati all’intelligenza dello spettatore non possono essere capiti da tutti ma ecco, io vengo da Viterbo, in realtà da un paesino della provincia di Viterbo e posso dire che mi piacciono, mi coinvolgono perché riescono a dissacrare senza inveire o mandare a cagare per forza.

Altra punta di diamante oltre Makkox e i reportage, sono le social top ten di cui, proprio gli accaniti sostenitori della democrazia liquida, dovrebbero riconoscerne l’importanza e presente e futura. Non solo per la potenza mediatica ma soprattutto per la contropartita e il lato oscuro del tweet: l’incapacità comunicativa, il lapsus, la coerenza si manifesta in maniera patente nel cinguettio lanciato. A volte più che un cinguettio un vero e proprio latrato cacofonico.


Infine proprio la seconda serata assicura al programma quel tanto di protezione necessaria: se fosse stata una prima serata sarebbe stata azzardata, ma la seconda serata fa sì che gli aficionados, gli ironici e sagaci possano lottare con la loro narcolessia pur di assistere alla politica in&out dei Palazzi. Questo programma è nato così, come interazione di media, come osmosi della comunicazione ed è potenzialmente una bomba mediatica: sta ai produttori mantenere questo tenore sempre alto e non disattendere quei fedelissimi che stanno sempre diventando più numerosi, precettati dalle battute salaci di Zoro non solo a Roma ma pian piano anche nelle altre Italie. E se si contesta il personaggio di Diego Bianchi bisogna anche vedere che il programma è basato su di lui, sulle sue idee ma anche su altre anime che rendono la trasmissione una testata giornalistica polifonica con tanto di intrattenimento culturale dato dalla musica di Angelini. Il reportage è Zoro, la cornice ha essenzialità solo nel momento in cui si hanno i cammei delle varie anime che spuntano nella trasmissione straniandone i punti di vista, accolti come arricchimento e non come diversità estranea. 
Miriam Di Carlo

venerdì 8 novembre 2013

Da dove l'Italia può ripartire? Le matricole lo hanno capito.

Oggi vorrei partire da una costatazione costruttiva nata su suggestione di due articoli letti su due diversi giornali (un quotidiano e un periodico settimanale), per poi continuare con una critica in relazione ad altre tendenze in voga. 

1)      La costatazione costruttiva nasce in merito ad un’indagine recente circa le nuove tendenze delle iscrizioni universitarie: esse sono lo specchio dell’economia contemporanea e rilevano i settori in cui i giovani vedono il futuro dell’Italia riponendo in essi le loro speranze. In un periodo di crisi, ovviamente non si può giocare sull’università, non si può perdere tempo e denaro o gingillarsi con una facoltà che si sa non potrebbe portare a nessuna sicurezza futura: si cerca di puntare sul dato maggiormente certo e concreto. Confrontando i sondaggi di due quotidiani diversi si nota che si è avuto un boom di iscrizioni in Agraria, Biotecnologie e Lingue. Lettere, Giurisprudenza e Ingegneria mantengono lo stesso numero di iscritti senza incrementi positivi o negativi. In netto calo il numero di iscritti ad Architettura e Farmacia. Cosa ne possiamo desumere? In concreto l’Italia non può ripartire solo dal Turismo: può ma non deve basarsi solo su questo. L’altro settore in cui può puntare non è certo l’industria perché abbiamo capito che con la gestione all’italiana dell’azienda (reminiscenza e ancorata ancora a vecchie maestranze ed artigianato le quali però ci assicurano punte di eccellenze nel campo della moda e della pelletteria) non possiamo essere grandi competitori a livello europeo e nazionale. Il settore su cui puntare è invece quello agricolo a mio avviso per diversi motivi. A) primo tra tutti bisogna partire dalla conseguenza del settore primario ovvero il prodotto nel momento della consumazione: la cucina italiana è considerata l’eccellenza, è famosa in tutto il mondo per la bontà, qualità e creatività ma anche soprattutto economicità. Ciò che ha reso la pizza e la pasta famosi è proprio il rapporto qualità/prezzo: pizza e pasta sono le portate più economiche del menù e rappresentano la base dell’alimentazione. B) L’Italia è conosciuta per la qualità dei prodotti: abbiamo un grande controllo sui prodotti che invece non si ha negli altri paesi come per esempio la Spagna. Questo crea una doppia frizione perché se da una parte siamo produttori di eccellenze agroalimentari,  spesso perdiamo nella esportazione di massa visto che abbiamo forti limitazioni su OGM, conservanti, coloranti, edulcoranti ecc. Ottimo dato, direi perché questo ci permette di cavalcare l’onda del salutismo, incrementato dalle paure contemporanee di tumori e altre malattie. Effettivamente l’Italia presenta una longevità maggiore rispetto ad altri stati. Ottimo anche perché i prodotti sono buoni oltre che sani: la vista magari non viene appagata come nel caso degli OGM ma il gusto ne esce enormemente soddisfatto. C) La causa: il clima, il territorio e la cultura italiana si prestano ad incrementare l’azienda agricola. Essa è connaturata nella nostra cultura e mentalità ma soprattutto è incentivata e facilitata dal clima del nostro Bel Paese: inverni miti e mitigati dal mare, estati anch’esse miti e non particolarmente calde date dalla morfologia allungata e non continentale del nostro territorio (in Spagna, paese che possiamo comparare a livello di latitudine con l’Italia,  sono presenti molti deserti caldi e impraticabili proprio per la morfologia continentale). D) ultimo ma non da sottovalutare l’importanza della moda-cucina che sta dilagando negli ultimi periodi su Tv, Social Network, blog. Una delle più importanti blogger italiane, Chiara Maci ha fatto della sua passione lavoro così come molti cuochi sono ormai conosciuti non solo per i loro ristoranti ma anche per le loro creazioni. Ecco, mi sento di dire che possiamo fare di più da questo punto di vista: abbiamo le materie prime giuste, i prodotti adeguati e soprattutto la cultura e la creatività per avere più primati in questo settore: infatti i cuochi migliori del mondo contano un solo italiano e ben tre spagnoli. Tra l’altro la Spagna detiene il primato e la Danimarca (???) il secondo posto mentre noi ci dobbiamo accontentare di un bronzo 1- El Celler De Can Roca - Girona, Spain  - Best in Europe & The World. 2- Noma  - Copenhagen, Denmark. 3- Osteria Francescana - Modena, Italy. 4- Mugaritz - San Sebastian, Spain. Ecco, io ripartirei da qui perché nella cucina italiana si fonde settore primario (agricoltura), secondario (la gestione aziendale dei prodotti che dovrebbe essere potenziata: industria agroalimetare), settore terziario: turismo. En passant un’osservazione sull’incremento degli iscritti di Lingue (sintomo che i rapporti internazionali a livello europeistico e internazionalistico stanno diventando simbolo del futuro. Mezzi di comunicazione di massa, mezzi di trasporto sempre più veloci ed economici fanno sì che gli scambi tra Paesi diversi e lontani siano all’ordine del giorno) e sulla disfatta di Architettura (sintomo dell’impossibilità economica di comprare, arredare e sistemare architettonicamente gli immobili. Forse l’Italia dovrebbe puntare maggiormente sul restauro ma anche lì c’è una falla nel sistema dei finanziamenti e dei Beni Culturali) e di Farmacia (altro sondaggio recente dimostra che si è avuto un calo notevole nell’acquisto dei medicinali grazie alla rivalutazione dell’omeopatia e parafarmacologia nonché al miglioramento degli stili di vita).

2)      Ripartiamo da qui e non dal Vintage, please. Vespa, Piaggio, Delonghi non torneranno indietro. Ora ci sono Stati più competitivi e in gamba di noi. 
Miriam Di Carlo

martedì 29 ottobre 2013

Roma, sede del potere.

La sindrome di Babe maialino coraggioso nasce proprio nell’uomo provinciale che arriva a Roma. Babe diventa coraggioso nella sua ingenuità e rimane sbalordito nel vedere un vortice di eventi alla Bruegel, in cui egli mantiene sempre il suo punto di vista basso, da maialino.

Ma che cos’è Roma? L’oggetto-Roma è definibile?
Roma è tanta, eccessiva, fastidiosa, appiccicosa e spavalda. È sempre stata così, fin dai tempi degli antichi romani e da 2000 e passa anni continua a essere forza centrifuga e centripeta di sapori, colori, culture e classi.
Del tipo.
Vado a svolgere delle commissioni burocratiche al centro di Roma. Prendo il mitico autobus 87 che passa davanti a Palazzo Madama. Scendo. E in quale altra città del mondo accade che, nel bel mezzo del traffico lavorativo, arriva una sfilza di macchine con i vetri oscurati, sfilano davanti a mitra scintillanti per il sole anacronistico di un ottobre estivo, una serie di politici in giacca e cravatta scortati, mentre immediatamente nel girone affianco (Piazza Navona) si celebra il carnevale della vita, con saltimbanchi che gonfiano palloncini, filippini in fuga con cartoni sotto braccio, pittori naifs che vendono repliche di repliche di quadri, orchestrine jazz che snocciolano note a colpi di ritmi invasivi e coinvolgenti, il tutto condito con oggetti volanti che vengono venduti insieme ad antistress buttati per terra con fare aggressivo? Cosa è successo nel ventre molle dell’Europa? Niente di diverso dal periodo barocco. A ricordarcelo c’è proprio quella fontana al centro di Piazza Navona in cui un ambizioso Bernini pose le statue dei quattro fiumi concretizzando nelle espressioni e gesti delle personificazioni, la contesa, la sfida e lo sprezzo per il genio del Borromini, accennato a tinte sobrie nella facciata di Santa Agnese in Agone. Roma non è cambiata: latina, rinascimentale o barocca, ebrea ed esotica, di Cagliostro e di Caravaggio che sia, essa racchiude in sé quel sentimento duplice di fastidio e di amore.

Del tipo.
Dopo una giornata stancante ti ritrovi ad aspettare l’ennesimo autobus che non passa davanti Santa Maria Maggiore. La guardi e, tra clacson, odori, puzze e profumi, pensi che la vista è appagata da così tanta bellezza. Trovare l’equilibrio nel caos e nel traffico di Roma, nei tempi devastanti di Roma che si dilatano nelle attese e si concentrano in maniera funambolica e rocambolesca nel resto della giornata, si può nella bellezza che essa propone in maniera spregiudicata, appianando tutti i fastidi interni in un grande senso di piacevolezza collettiva. Trovare l’equilibrio a Roma si può, perché tra il mosaico del tutto, c’è sempre uno scorcio pronto a prenderti e riportarti verso l’amore per questa città. Poi torni a casa dopo un’ora e tre quarti e pensi: ma Roma è il Bangladesh! E che cavolo…

Miriam Di Carlo

giovedì 10 ottobre 2013

La paura outcoming e incoming dell'Italia cavalcata da Grillo.

Il giorno in cui apprendo del grande successo in Francia del Movimento Nazionale, comincio a capire quanto l’Europa, soffocata dall’economia mondiale stia diventando, nelle varie manifestazioni nazionali, xenofoba, esterofoba, violenta verbalmente e fisicamente. Hollande è preoccupato. Ma caro Hollande, che dovrebbe dire l’Italia?
Infatti proprio oggi esce un nuovo post di Grillo dal titolo “Reato di clandestinità”[1]. Tutti si meravigliano, tutti esprimono il proprio diniego. Ma da un Movimento che faceva l’occhiolino a Casa Pound, quale proposta alternativa si poteva avere? Una precisazione: da notare, con grande gioia che l’opinione dei due capoccia non corrisponde con quello degli onorevoli e senatori a 5 stelle, i quali hanno dimostrato di essere coerenti con i principi umanitari di cui credevano essere portavoce. Eh, no. Non ci siamo. Grillo lo ha ribadito più volte nei suoi comizi: Beppe ha mostrato la volontà di chiusura dell’Italia, su diversi fronti. Vediamoli:

-          Prima cosa la chiusura dell’Italia verso l’Europa (politica anti-outcoming). La paura di essere schiacciati dalla Germania, ha indotto Grillo, secondo un’analisi semplicistica e con ottica prettamente europeistica ma anche senza un minimo di visionarietà sul futuro, a proporre una chiusura all’euro entrando di nuovo alla Lira. In un primo momento devo essere sincera che mi sono quasi persuasa di questa soluzione, perché leggendo articoli di alcuni economisti avevo notato quanto l’Italia guadagnasse da questa scelta. Ma il problema è un altro. Ormai l’Italia non è niente se non c’è l’Europa. E questo non vale solo per l’Italia ma per tutti gli stati dell’Unione Europea. Guardiamo un attimo un mappamondo. Quanta superficie ha l’Europa? Quanta crisi sta avvertendo l’Europa? I paesi che stanno dimostrando capacità e risorse economiche non sono solo Cina e Brasile ma tutti gli altri Paesi in via di sviluppo, i quali, consapevoli della grande debolezza dell’economia occidentale stanno entrando in gioco, e velocemente. Ora, con questi colossi che si affacciano e crescono sempre di più (e noi contribuiamo ad alimentarli poiché i prodotti cinesi sono molto più economici di quelli italiani), che opportunità ha l’Italia senza l’Europa. Se qualcuno di buona volontà riesce a spiegarmelo ne sarei felice. L’Italia, da sola con il settore moda e la gastronomia? Un settore automobilistico che investe all’estero, l’Alitalia che non esiste, gli altri campi industriali fagocitati, e scusate…ah, sì. Il famoso artigianato italiano. Ma dove andiamo? Se non uniamo le forze di tutti gli stati europei, finirà che l’Europa sarà il grande relitto del Mondo, messo sotto vetrina solo per andare a vedere il passato di una civiltà antica. E da questa osservazione si può capire che, a mio avviso, anche in un futuro, la vera forza dell’Europa e dell’Italia in particolar modo è il Turismo. Come ha acutamente osservato Diego Della Valle[2] (uno dei pochi imprenditori italiani che sappiano il loro mestiere applicando un’ottica trasversale) bisogna ripartire dal turismo per rilanciare l’Italia in Europa, e l’Europa nel mondo. Se poi ci chiudiamo, ecco che diventeremo automaticamente la Calabria dell’Europa.  E il rudere antico del Mondo.
-          Seconda chiusura dell’Italia verso l’immigrazione (politica anti-incoming). La paura economica cavalcata da Grillo nella precedente affermazione, ritorna anche nel post di oggi nella denuncia all’abolizione del reato di clandestinità. Una domanda che mi sono sempre fatta ascoltando Grillo e la Lega: si può fare politica usando le paure dell’uomo?[3] Grillo appare convincente a tutta quella popolazione che non riesce a sostenere economicamente la propria vita: li chiama personalmente davanti al tribunale del voto al M5S. Il concetto basato sul perbenismo e cieco egoismo è: gli extracomunitari lavorano, gli italiani no, perché dobbiamo tenere questi a casa nostra, perché dobbiamo accogliere persone che ci tolgono quello che è nostro? Caro Grillo, il diritto umano è solo tuo? Caro Grillo, la terra è solo tua? Caro Grillo non fai parte di un’umanità o non ti riconosci nell’uguaglianza dei popoli? Caro Grillo non pensi che tu sei stato molto fortunato e furbo ad avere tutti gli agi che hai e che invece ci sono persone che vivono in paesi terribili in cui non hanno mai vissuto pace politica o pace economica? Caro Grillo, sei investito dall’alto per decidere chi deve vivere e chi no? Cosa cambia dal “farsi i fatti propri” del berlusconismo? Che Berlusconi lo faceva semplicemente con la sua villa e che ora tutta l’Italia lo fa con gli altri paesi secondo il principio: sto in difficoltà, andate a cagare tutti perché devo sopravvivere solo io? Un calcio di qua e un calcio di là, via qualche diritto umano, adottiamo qualche diritto europeo, facciamo un ritaglio di qua, cerchiamo di progredire così. E invece dietro si nasconde la più grande involuzione umana, la cecità dello Stato chiuso per paura, l’incapacità di considerare l’intera umanità nella sua completezza, complessità. Non si tratta di fare i perbenisti. Si tratta di essere umani, concetto e sentimento che a vedere dalle manifestazioni di Casa Pound nel quartiere Vittorio Emanuele di Roma, è stato completamente dimenticato. Una paura intrinseca dell’uomo, quella di perdere la propria identità e di perdere in generale ha cavalcato la crisi economica del momento abbinandosi alla paura della mancanza di denaro.
Sono dell’idea che calpestare i diritti fondamentali di un qualsiasi essere vivente attraverso una legge che renda lecito il danno etico a causa del problema materiale dell’uomo sia la più grande illusione che possa portare l’uomo nel buio.
 Miriam Di Carlo



[1] Accanto potrete comprare anche il nuovo libro di Gianroberto Casaleggio che, dopo l’intervista concessa a Oggi o Chi (non frequento questi giornali) invia il suo nuovo messaggio alle nuove generazioni attraverso un’ironica stigmatizzazione della propria vita. Come se l’ironia possa eludere dall’impressione che ci sia dietro un intento quasi mitico. Gianroberto, ma prima di questo, chi eri?
[2] Diego Della Valle ha recentemente sovvenzionato i lavori di restauro del Colosseo. Ora pensateci…il simbolo nazionale italiano, che ha 2000 anni, ristrutturato. Bene, che sia uno stimolo di rinascita dell’Italia intera.
[3] Alla fine persino Berlusconi ha fatto leva sulla speranza. Su una speranza cieca e illusoria, priva di senso e completamente vuota ma ha puntato su una speranza: la visibilità glitterata dell’uomo e il condono delle proprie inettitudini morali. 

lunedì 7 ottobre 2013

Su #PiazzaPulita, il servizio di Sortino e noi giovani

Sono reduce da un servizio su Piazza Pulita curato da Alessandro Sortino. Diffido, dopo tutti questo talk shows politici e politichesi, il servizio ammiccante, di facile presa, il sondaggio opinabile e scientificamente non provato (non si mostra mai su che base si rilevi il campione) ma la puntata di stasera ha reso con efficacia uno spaccato di vita con cui noi giovani siamo costretti a confrontarci ogni giorno.
Anzitutto siamo giovani e ciò che è emerso è che i giovani hanno bisogno di sperare, o almeno hanno bisogno di qualcuno che apra uno spiraglio sulla speranza. Franceschini ha criticato l’accostamento fin troppo facile tra politica e chiesa la quale è la sola che riesca in questo momento a dare una speranza. Effettivamente fino ad oggi, colui che ha dato una speranza è stato solo Berlusconi: ha dato la speranza della visibilità, della notorietà, del lustrino, dello status symbol (incarnato nella sua stessa persona, vista come il massimo idolo da raggiungere e raggiungibile) relegando ai margini della società la cultura, la sostanza, la morale e l’etica in tutti i campi. Ma chi aveva bisogno di questa tipologia di speranza? Chi ha votato questo modello di visione sul futuro? Ovviamente la generazione dei nostri padri: una generazione con genitori coinvolti nelle guerre mondiali, nati in contesti poveri o in cui non sia aveva grande benessere e che improvvisamente hanno visto una crescita economica spropositata rispetto al passato. Raggiunto un benessere omogeneo, la speranza non era più rappresentata da questo benessere quanto da qualcosa in più che arricchisse il leitmotiv del benessere: il modello di Berlusconi. E’ meraviglioso vedere che, nel servizio di Sortino, quei casting per il Grande Fratello che prima erano così piani di gente, ora siano decimati; che i modelli siano altri e che l’austerità non è più una regola, quanto una necessità di vita, che sposa la sobrietà.
Con grande rammarico, non si può non osservare che la generazione uscente, volente o nolente, si è fatta prendere da questo grande benessere e ci ha trasmesso valori e parametri sbagliati, ormai inadeguati alle esigenze di una nuova generazione di giovani che vorrebbe sperare in qualcosa di reale e concreto.

Che fa ogni giovane ogni mattina?
Si alza, si prepara la colazione, accende la televisione e scopre, con grande frustrazione che la disoccupazione giovanile cresce ogni giorno di qualche punto percentuale, che la crisi aumenta e strozza. Ora, con tutta la buona volontà, come fa un giovane a vivere la su vita a cuor leggero?

Quindi in fin dei conti siamo una massa di laureati, magari anche con più competenze tecniche, scientifiche e umanistiche rispetto ai nostri padri ma con l’incapacità di introdursi nella società e avere un posto indipendente perché c’è ancora una generazione che dovrebbe uscire e non lo fa, sebbene abbia garantiti ammortizzatori e servizi che probabilmente noi ci dimenticheremo un giorno che siano mai esistiti.  

Ma allora perché ci avete fatto studiare se poi non possiamo intervenire a salvare questa catastrofe che avete generato con il sopore passato della vostra ragione?
Miriam Di Carlo

giovedì 3 ottobre 2013

Cronaca di strada di una giornata.

Abbiamo deciso, non senza interno travaglio di esprimere un voto di fiducia a questo governo”.

“Ha detto sfiducia?”

“No, a me me pare fiducia”

“Ma che davero?”

“eh, me sa de sì”

“Ma n’se pò rimannà ‘ndietro?”

“Eh, no, ‘n se pò”

“No, ha detto fiducia, guarda Angelino, tutti ridono, n’è possibile”

“Spè moh se mette a piagne…”

Questa è la cronaca di una giornata romana. Un paese incredulo. Un uomo che parla con plurale maiestatis quando ha deciso da solo, giocando l’ultima carta del martirio per la Repubblica. Un modo per rimanere a galla si trova sempre: è un fantasista. Probabilmente verrà ricordato dai fedelissimi come colui che offrì il capo per la propria patria.
Ma continuiamo.

“E mo’ che succede?”

“e che ne so’ fijo mio, nun ce penzamo che famo mejo”

“ma hai visto ier zera Cicchitto che j’ha detto a Sallusti?”

“ma chi a Nosferatu?”

“Si…j’ha detto porti jella”

“Toccamose e annamo avanti fijo mio”

“Toccamose e annamo avanti”

“Che Dio ce la manni bbona”

“E che magari se levamo quel testa de c*** de B. dalle p***”


“Amen”

"Amen"

martedì 1 ottobre 2013

No finirò questo articolo nella disperazione. Tutt'altro.

Obiettivamente non è possibile spendere ulteriori parole circa la situazione presente. E’ la situazione peggiore in cui l’Italia abbia versato da quando si è avuta l’unificazione. Un’istituzione politica ormai spappolata, senza più risorse, credibilità interna ed estera; un potere avviluppato nella burocrazia, intempestivo, farraginoso per ruggine incancrenita negli anni, nelle legislature senza mai aver attuato un minimo di pulizia; un linguaggio non linguaggio, fin troppo poco persuasivo di tutti i politici; un paese, l’Italia, piegato in due davanti all’economia mondiale ed europea in cui perde per mancanza di metodo, di strategie convincenti e soprattutto di coerenza economica, che è quella che rende stabile l’investimento estero sui nostri mercati; appunto, mercati quasi assorbiti completamente dalle tasse, tasse sui capannoni industriali, tasse sui prodotti e un paese che non gira ma è cristallizzato da un gelo interno; una generazione, la nostra, di ragazzi che vedono i propri padri pieni di sicurezze, che percepiscono qualcosa (uno stipendio, una pensione, qualcosa insomma), e se stessi completamente incapaci di poter almeno un giorno, gustare un minimo di quelle certezze. Un paese che si fonda sul lavoro dei sessantenni e che imbriglia i giovani. Infrastrutture mandate alla deriva come nel Medioevo e ammortizzatori sociali che si stanno estinguendo. Noi giovani vediamo il nostro futuro essere mangiato e consumato dalle generazioni avanti a noi, spesso egoiste e chiuse. In tutto questo scenario terribilmente apocalittico (non romanzato ma reale), c’è un uomo che continua a immobilizzare il paese perché non vuole accettare che è stato la rovina dell’Italia. Rovina in tutti i sensi: morali, politici, etici e soprattutto con effetti sul futuro…che adesso è il nostro presente.
L’organizzazione e il metodo sono sempre stati i nostri talloni d’Achille.
L’interesse del proprio è sempre stato motivo di rotture interne.
La verità per cui l’ideologia del partito si è sempre configurata con il portavoce dell’interesse personale (Berlusconi) si è palesata nel momento del “serrate i ranghi” e dimettetevi. Ma il filo del rasoio sta proprio qui: chi è disposto ora come ora a puntare di nuovo su Berlusconi? Chi è disposto ad abbandonare la sua comoda poltrona in Parlamento per un uomo che non può più promettere nulla se non attecchire sui quei quattro deficienti e anziani che lo votano? Qui è in gioco il loro potere personale e non il potere che derivava un tempo dal sommo Silvio. No, ora c’è un margine d’indipendenza che può garantire la salvezza del proprio tornaconto, altrimenti dall’altra parte si adombra l’autodistruzione. Ma c’è ancora chi cita Einstein, chi manda torte e chi scrive libri per il proprio mentore di vita…e queste persone hanno visto la propria esistenza risollevarsi solo quando hanno leccato un po’ il sedere a quell’uomo.
La verità è che con queste istituzioni non andiamo da nessuna parte. E’ tutto troppo lento, troppo inceppato, troppo imbastito, non c’è più tempo per giocare ai tatticismi, agli occhiolini.
“Sembra che tu stia prendendo i toni di Grillo.” Qualcuno mi potrebbe obiettare.
No, non ci penso lontanamente, anche perché lui, con la sua riluttanza a concedersi, sempre per l’inebriamento della vittoria si è lasciato sfuggire l’opportunità di fare qualcosa e contribuire, conformandosi, già dal primo passo a quel sistema che tanto voleva abbattere. Risultato? Il nulla e il caos.

Non voglio prendere i toni di Grillo perché alla fine di un suo post potresti suicidarti, e invece non si deve mai e poi mai darla vinta alla rassegnazione che produce odio e soprattutto alla tristezza che deriva dalla mancanza di speranza. Cari miei la vita va avanti. Se tutto questo inferno istituzionale dovesse crollare, se l’Italia dovesse fallire la vita va avanti. Le persone continueranno ad innamorarsi, a fare figli. Si ripartirebbe dalla base, senza tanti salamelecchi, e via quei vestiti accumulati nell’armadio, meglio impastare le mani nella terra e produrre da soli senza aspettare che al supermercato arrivi la frutta con due euro in più e la carne inafferrabile. Meglio capire i bisogni della terra, imparare ad amarla, a rivalorizzarla. A fondare famiglie in cui la speranza non è quello che ci hanno fatto credere fino ad ora: denaro, denaro e uno stato sociale comodo. No, la speranza è nell’amore. E non si veda in questa affermazione un eccesso di miele o di romanticismo. No. Perché l’uomo è un essere nato per amare ed essere amato. Solo che ha sbagliato il modo di sentirsi amato: dalle cose, cose, cose capitalizzando qualsiasi cosa. Ma mai l’amore fraterno. Si può ricominciare, si può guardare in alto, si può. E l’unico che parla in maniera convincente, a attua in maniera altrettanto convincente è papa Francesco. Ce lo dimostra lui: semplicità nella Curia e nella vita. Se si ritorna a mungere le vacche tanto di guadagnato per voi e per i vostri figli. 
Miriam Di Carlo

martedì 17 settembre 2013

Un videomessaggio. Non è Osama.

In trepida attesa del videomessaggio più sospirato dell’anno (e non è il messaggio dio Buon anno del Presidente della Repubblica, né l’Habemus Papam) dico solo una cosa. L’eredità di Berlusconi?

Berlusconi ha scavato nell’uomo, nel vizio e nell’inconfessabile inconscio dell’uomo e gli ha detto: lo vedi quel peccato di coscienza che lo Stato e la cultura cattolica radicata in Italia hanno mortificato, represso facendoti venire sensi di colpa inutili per te stesso e per le persone che ti circondano? Bene, non è vero che è male, vedi in fin dei conti siamo tutti così, in fin dei conti tutti un peccatuccio lo facciamo e quindi fallo pure te. Il mondo gira così, allora sii più rilassato, campa bene che campano bene pure gli altri. Sbattitene delle regole e viziati. Viziati come più puoi. E fa del tuo vizio la tua virtù e il tuo essere.

Ecco perché ora viviamo in una società dalla virtù viziosa e dal vizio considerato virtù, in una grande babele di bocche rifatte e gommose.

Perché si sa, se il vizio è lecito, meglio renderlo manifesto e sbatterlo in faccia a tutti in maniera spregiudicata ma silente, come un leitmotiv che passa in sottofondo e a cui assuefare.

E tutte queste condanne appaiono come qualcosa di surreale, qualcosa che abbiamo sempre desiderato ma che pensavamo fosse impossibile e infattibile. Ora che succede è strano, è come un grande sogno collettivo. O forse ci stiamo solo svegliando da un lungo, persistente e martellante sogno.  Finalmente.  


Miriam Di Carlo

mercoledì 17 luglio 2013

Il ruolo del politico e la provincia italiana

Fabrizio Barca va in giro per l'Italia tra le periferie e le grandi città, Nichi Vendola fa altrettanto, tacitamente. Arriva a Vetralla, paese di 13000 abitanti nella TusciaViterbese. Appare un gesto strano agli occhi di molti: c'è chi ci crede, c'è chi fa spallucce e pensa sia una bufala. Quando la notizia si fa certezza, ci sono anche gli scettici: e sono molti. Perché visitare un paesino di 13000 abitanti, molto chiuso sotto certi punti di vista ideologici? 

Purtroppo in una società dominata dal marketing politico e dal consenso a basso costo, ottenuto tramite populismi plateali non viene più concepito un gesto del genere. Un gesto del genere che dovrebbe essere l'atteggiamento tipico del politico. Il politico, se vuole fare questo mestiere nella vita deve TOCCARE il popolo italiano in tutta la sua eterogeneità, in tutte le sue idiosincrasie, in tutte le sue contraddizioni, in tutte le sue manifestazioni, non arroccarsi su un proprio personale piedistallo che aliena dalla realtà vera, che indora la pillola della crisi e chiude verso quell'egoismo becero che ha caratterizzato la nostra classe politica uscente. Abbiamo bisogno di politici che abbiano voglia di sporcarsi le mani con noi, che abbiano voglia di capire i disagi sperimentando i disagi con noi, persone che vadano a visitare tutte le identità multiformi di cui si compone l'Italia al fine di farsi un quadro completo della situazione e trarre le conseguenze più opportune per il bene di tutti. Non c'è chissà quale dietrologia dietro questo: il politico nascerebbe con questa vocazione, poi persa nella notte dei tempi. Quindi rispondiamo a tutti coloro che sono stati diffidenti, quelli che vedono solo commercio di anime e di cose nella loro vita: no, possiamo ripartire dalla base, da politici competenti che mettano le mani nel tessuto pastoso, argilloso, a volte vischioso dell'Italia. Ma si sa, dalla materia repellente dell'argilla, possono nascere vasi ed anfore dalla bellezza singolare. 
Riportiamo di seguito quindi l'articolo di un cittadino vetrallese, iscritto a SEL che ha preso parte all'evento e che ci dà la sua testimonianza. 

"Nichi è qui a Vetralla" di Mauro Presciutti.

Tutto ciò che mediaticamente ci raggiunge è incentrato su un modello di società che spesso non riflette la reale composizione del tessuto sociale italiano, soprattutto dal punto di vista della distribuzione geografica. Nel corso degli anni Tv, radio, giornali ed ora internet hanno dipinto l'Italia come un paese dove la vita è totalmente indirizzata alle grandi città e dove, al di fuori di queste, non esiste nulla o poco più. Allora ecco pubblicità di qualunque cosa (dall'automobile, alla crema viso, passando per i cereali) che ritraggono scene di presunta vita reale ambientate in metropoli che, a onor del vero, non sembrano più nemmeno europee. E la provincia italiana (l'importantissima e ricchissima provincia italiana)?  Ridotta ad essere nulla più che uno scenario da week end o da Spa dove poi il lunedì mattina si smantella tutto e ci si rivede il venerdì. E la politica non s'è sottratta da questo processo, intervenendo per incentivare la nascita di immensi agglomerati, dimenticandosi di milioni e milioni di cittadini sotto ogni punto di vista, da quello dei trasporti fino a quello occupazionale. Ecco che allora la presenza di Nichi Vendola in un paese di 13000 abitanti circa, ha un valore elevato, molto elevato. Parla di massacro della cementificazione, di dramma della spopolazione dei territori e parla di una italianità sempre più lontana da quella originale, sostituita passo passo da modelli non reali e non applicabili, che finiscono per ledere diritti e ambiente in un colpo solo (il passaggio su Marchionne è chiaro ed inequivocabile). Si guarda intorno, guarda le mura e le case colorate della piazza, guarda la gente che annuisce ad ogni sua parola e spesso lo interrompe per applaudirlo. Ha un carisma che hanno in pochi, una capacità di coinvolgere che è una rarità, ma il suo lato migliore è quello che mostra quando scende dal palco (e anche prima di salirci in realtà). Risponde a tutto ciò che gli chiedono in maniera precisa e senza giri di parole, risponde a chi lo saluta e gli fa i complimenti ma rimane anche a parlare con chi solleva problematiche politiche e ambientali. Va verso i bambini o le persone più anziane, riserva una parola per tutti, nessuno escluso, mette a dura prova la pazienza di quelli che devono scortarlo e che preferirebbero entrasse subito in auto. Nichi dice chiaramente che la politica è uno strumento e una ricchezza a disposizione di tutti e non un'entità inarrivabile, ci dice di concentrarci su questo concetto, di rispettare e di batterci per il nostro territorio perché tutto ciò lo renderà migliore. Prima di partire sfoglia i libri su Vetralla che gli ho regalato e fa: "bravissimi, continuate sempre così mi raccomando, davvero..." Quattro parole che saranno per sempre un monito per lavorare duramente e migliorarlo davvero questo territorio.
Mauro Presciutti

Infine da vetrallese, nata e cresciuta nella Tuscia, ma da sei anni ormai nella capitale laziale, posso con certezza dire che le province (ora come si chiameranno?) laziali sono state deprivate di molto, proprio a causa di una Roma che tutto ingloba e assorbe. Lavoro, soldi, tempo. Abbiamo dei meravigliosi patrimoni territoriali e culturali, una storia invidiabile all'estero (un nostro paese in Inghilterra sarebbe  messo sotto vetro e fatto visitare da milioni di turisti), eppure non si ha modo di far ripopolare la Tuscia, con i suoi tesori etruschi disseminati nei boschi, con i suoi paesi medievali di raminga memoria, con i suoi fascinosi eremi nascosti agli occhi dei pellegrini, con tanti beni ancora da scoprire e documentare. 
Date un aiuto concreto alla casa editrice Ghaleb Editore, al fine di finanziare un rapporto con il patrimonio territoriale, agricolo, archeologico e storico del territorio della periferia italiana. http://www.ghaleb.it/home.htm
Miriam Di Carlo
Vetralla




Piramide Etrusca, Bomarzo.

domenica 14 luglio 2013

Ci son due Calderoli ed un Orango Tango, un'idiozia reale...

Ci son due Calderoli ed un Orango Tango, due piccoli dementi, un’idiozia reale, un Bossi, un Trota, un Maroni, non manca più nessuno, solo non si vedono i Mezzogiorni.

La grande sciagura della dichiarazione pubblica di Calderoli è il subire incessantemente sue foto e filmati da un giorno a questa parte. Volete renderlo ancora più inviso? Bene, questo è il modo giusto. Se dovessimo adottare una teoria fisiognomica (come in un certo senso ha fatto lui con la Kyenge) secondo cui i tratti somatici corrispondono a caratteristiche intellettive e morali, Calderoli non ne uscirebbe molto bene: non è proprio un Adone, e, diversi anni fa sfoggiava una bella pappagorgia degna dei migliori pellicani, facendo invidia al signor Borghezio, la cui pancia potrebbe benissimo sfamare tutto un intero continente. Quello che lui taccia di inferiorità.

Ma con “orango”, sinceramente ci è andata anche bene: chissà quanti appellativi, insulti e schifezze varie diranno i leghisti nelle loro convention votate al Dio Po. Dopo aver esaurito le sacre acque del fiume, si danno al vino, al convivium: a sparare cazzate. Così si è sviluppata la Lega.
La Lega però non nasce così, davanti a un tavolino, un po’ di Gorgonzola e un’ampolla magica. No, la Lega, così come il M5S nasce come emanazione di una singola personalità, la quale forte di paure e insofferenze riscontrate in molti individui, decide di farsene portavoce al fine di ricevere consensi. La lega, aglli albori della sua ascesa politica si fece strada presentandosi come l’anti-partito che voleva scardinare il sistema politico vigente, al fine di reintrodurre una sorta di integrità etica. Il movimento che si formò, diventa forte dei propri “valori” ideologici, che oltre ad essere bandiera (come si nota essi sono molto ben delineati rispetto a quelli di  altri partiti), sono punto di forza e coesione di un gruppo compatto e monolitico. Nei discorsi alla Camera per esempio Bossi usa non solo un linguaggio colloquiale, non solo parole che non si sentono uscire dalla bocca di altri parlamentari e che sono tipici di un registro medio-basso, ma soprattutto si permette di richiamare il silenzio a modo suo, in maniera perentoria e da leader indiscusso: “Silenzio!”. Questo linguaggio ha degenerato piano piano, si è infiltrato nella politica e oggi ne abbiamo subita una delle tante conseguenze che siamo costretti ad ascoltare. Segno che, se si leicizza ogni forma di bassezza linguistica (che in questo caso cela un giudizio improprio) facendola passare per una maggiore trasparenza davanti a discorsi troppo artificiosi e costruiti, ecco a che punto si potrebbe arrivare: che le parole non passano dal cervello, non vengono più pensate e si sputano tranquillamente. (Ma in questo caso particolare credo che, se pure le parole fossero entrate nel cervello di Calderoli prima dell’enunciazione pubblica, non è che avrebbero subito grandi trasformazioni). Attenzione fortemente quindi ai Vaffa, che oggi sono diretti verso la Kasta ma domani potrebbero benissimo essere rivolti dai vostri figli a voi.
Inoltre l’emanazione dal leader si manifesta anche a livello sintattico e della struttura della frase: molti sono i punti di accordo tra Lega e M5S, singolarità tipiche di solo questi due partiti, assenti in altri.

Infine lascio ai filosofi le caratteristiche che riguardano la xenofobia vista come paura del diverso e punto di forza coesiva di un gruppo la cui singola persona presenta forti debolezze e fragilità. 
Miriam Di Carlo



Campioni di bellezza e intelligenza umana. 




giovedì 11 luglio 2013

Esiste un Santo Nume tutelare degli Italiani? Se no, forse lo stiamo creando.

Per il 31 Luglio ho comprato un Berlucchi e un Brachetto d’Aqui. Non capisco nulla in tema di spumante ma mi hanno detto che per ben festeggiare si fa così. Quindi li tengo al fresco. Sono indecisa se fare una sorta di Ramadan: cioè un lungo digiuno-fioretto propiziatorio il 29 luglio per poi lasciarmi a quanto di più grottesco e godurioso possa produrre l’industria gastronomica italiana. Il 30 Luglio non mi chiamate, non mi cercate, non ci sono.

Si festeggerà, se il Santo Nume tutelare degli italiani vuole, la fine di un’era. Di Silvio Berlusconi ma anche dell’antiberlusconismo che ha rinvigorito e martirizzato il suddetto personaggio, rendendo invisa la magistratura e la legalità agli occhi dei primi indecisi, poi radicati e infine fossilizzati sul mito di Silvio.
Infatti se paghiamo ora le conseguenze della grande persecuzione ai danni del beato Silvio da Arcore (la santificazione non si può applicare su chi è immortale) è per colpa di un atteggiamento politico e sociale nato in opposizione al politico in questione, ma che, abbagliato e ottenebrato dall’odio, non ha fatto altro che rinforzare l’idea di un grande martire da salvare. Tutti ce l’hanno con lui, tutti lo odiano immotivatamente, tutti lo scherniscono senza alcuna giusta causa. Quindi da una parte si delinea la figura dell’antiberlusconiano becero che addita e respinge (giustamente) ma che non mantenendo lucidità finisce per farsi prendere la mano un po’ troppo inveendo a spada tratta contro la stupidità umana, dall’altra per contro, ci troviamo il sostenitore medio di destra che, vista l’acribia del primo tipo sociale, difende strenuamente il Cavaliere, arrivando non solo a farselo piacere politicamente, ma anche socialmente, eticamente e culturalmente: si ha così la nascita del mito.
Il berlusconismo e l’antiberlusconismo hanno quindi caratterizzato questa era che probabilmente, ci lasceremo alle spalle. Non cesserà di esistere il berlusconismo: esso è un atteggiamento non solo politico ma ormai sociale e culturale che ha allevato intere generazioni le quali saranno prossime a diventare le basi su cui si fonderà la futura Italia. I concetti del “beh, lo fanno tutti”, del “voler tutto con il minimo sforzo”, del “massimo della forma, minimo della sostanza, tanto chi se ne accorge”, del “essere simpatici a basso costo per far colpo”, del “maschio italico dalla vigoria e virilità latina” ormai hanno impregnato la vita di tutti i giorni e continueremo a subirli fino alla fine dei secoli dei secoli, amen. Anche io ne sono stata sedotta involontariamente e chiunque, sfido, sono sicura possegga almeno un oggetto in casa che rimandi al grande imprenditore. Bisogna dare atto che è stato un personaggio carismatico, attento al gusto medio italiano sul quale fare presa, allerta sui bisogni più ancestrali ed egoistici che esistono nell’uomo per poi renderli palesi attraverso il soddisfacimento legalizzato di tale istinto, normalmente tacciato di infamia. Ovvero ha palesato (non attraverso la denuncia ma attraverso la proposta di soddisfazione) bisogni reconditi nascosti a noi stessi, li ha resi “normali” e “naturali” quindi “legali” nella natura umana, e vi ha posto rimedio attraverso la sua personalità che ha rappresentato l’incapacità dell’uomo di avere una coscienza e di ammettere i propri errori e limiti. Berlusconi è stata la grande giustificazione per l’uomo verso la sua immoralità: si è dimenticato che etica e morale (non moralismo) sono basi fondamentali per la crescita e il progresso sano di una civiltà in cui ognuno, consapevole dei propri doveri, si responsalizza nei confronti dell’altro, garantendone la libertà e la dignità.

Ora sugli scenari che si aprono davanti al PdL, lascio il campo a chi più di me se ne intenda, ma vorrei solo meditare sul fatto che B. non voglia far cadere il Governo (dicunt) mentre siano più i suoi discepoli (ormai quasi apostoli) a prospettare tale soluzione. Immaginiamo la scena:  il grande statista B. che a tavola, con i suoi, prima del martirio, spezza il pane e rifiuta qualsiasi proposta di salvezza: andrà avanti per il bene dello Stato. Prostrerà il capo con una corona di capelli nuovi, denunciando e testimoniando non con le parole ma con il suo atteggiamento fiero. Incorrerà nella sentenza ante tempore (per niente tra l’altro, Gomez lo ha spiegato bene in molte occasioni): carcere o servizi civili.
No, il carcere no. Non lo voglio io: rischierebbe di creare una piccola Arcore nel carcere, corrompendo secondini e guardie affinché gli portino un bel cosciotto di agnello mentre il vicino di cella mangia il semolino liofilizzato: meglio allearsi con lui piuttosto che mangiare semolino fino alla fine dei giorni. Meglio farselo amico, magari con qualche regalo e vedrai che il cosciotto arriva pure alla cella vicina.
Preferirei i servizi sociali. Sì. Che si stanchi per una volta. Che faccia qualcosa che ha solo immaginato e mai visto né sentito raccontare. Che subisca un po’ la vita, e non sia lui a farla subire agli altri. Che cominci a capire come gira l’animo di un uomo e non solo il suo primitivo istinto di sopravvivenza.  Allora a quel punto, dopo la conversione, il cieco tornerà a vedere e magari aspirare veramente a un gloria maggiore di quella che con perizia si è creato magistralmente con le sue mani.

Ora vorrei solo che, visto ciò che ha creato l’antiberlusconismo, non si ricada nell’errore dell’antigrillismo: che si cerchi di far ragionare attraverso il dialogo, base prima della progressione attraverso un processo continuo di affermazione ma anche di umiltà e di regressione.
Miriam Di Carlo

P.S. Colgo l’occasione per fare i miei più cari auguri telematici a Marco Di Caprio, oggi dottore in Italianistica presso l’Università degli Studi Roma Tre riportando il voto di 110/110 con lode. L’argomento trattato riguarda i cromatismi nella lirica provenzale.  Capisco che non ve ne possa fregare di meno, ma io ci tengo che si sappia.


domenica 7 luglio 2013

Perché non sono d’accordo con Eugenio Scalfari.


Quando arriva la domenica sono sempre molto felice di vedere tra gli articoli de La Repubblica la firma di Eugenio Scalfari, uomo ormai abbastanza maturo negli anni ma che ha mantenuto una buonissima lucidità e acume facendo invidia a molti miei coetanei. Ma l’articolo di oggi (7 Luglio 2013) proprio non mi convince: vorrei esporre solamente le mie perplessità al riguardo magari trovando il principio di un dibattito fruttuoso.

L’articolo reca il titolo “ Le risposte che i due papi non hanno ancora dato”. L’articolo si propone come obiettivo quello di sondare le risposte che il papa emerito Ratzinger e papa Bergoglio hanno saputo fornire nella prima enciclica del nuovo pontificato a proposito della domanda esistenziale dell’uomo: “chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo”. In particolare Scalfari si sofferma su una domanda esistenziale che è apparsa sempre nella mente degli uomini, da Dante a Pirandello fino alle voci poderose dei pensatori più contemporanei: “esiste una sola verità o tante quante i singoli individui e la loro mente ragionante configurano?”.
Il problema dell’articolo di Scalfari concerne proprio l’esclusione di una via e di un confronto tra due alternative, che non si escludono ma si completano vicendevolmente. Vediamo dove e perché.

L’analisi di Scalfari parte proprio dalla doppia natura di Gesù: divina ed umana. Il giornalista analizza i 40 giorni nel deserto quando il figlio di Dio fu messo alla prova dal demonio. Le tre tentazioni subite nella natura umana furono vinte: così liquida l’argomento Scalfari aggiungendo la sola postilla che riguarda la forza divina che risiede nella vittoria delle tentazioni.
Le tentazioni non furono vinte solo perché Gesù era figlio di Dio, ma perché queste tentazioni possono essere sconfitte dall’uomo, dall’individuo normale perché Dio ci ha fatto a propria immagine e somiglianza. Ma perché sconfiggere delle tentazioni? A che pro non essere sedotti dal bene illusorio che può donare una qualche soddisfazione terrena? Perché questa tentazione illusoria porta ad una tristezza intrinseca non individuabile immediatamente ma che si infiltra nell’animo come piccola cellula tumorale: aumenta, si allarga, si incancrenisce e forma metastasi in tutto il nostro essere. Le tre tentazioni sono le tre tentazioni nella vita di ogni uomo: quella del pane (ovvero la comodità: quante volte non facciamo, non ci prodighiamo perché vogliamo soddisfare la nostra comodità, il nostro spazio per il nostro corpo ed essere? È il principio di un egoismo che non ci fa uscire da noi), delle sicurezze (dove riponiamo la nostra vita? In quale sicurezza? Quella sicurezza diventerà la nostra schiavitù perché avremo sempre paura di perderla non riuscendo a uscire dal cerchio che ci tiene avvinghiato e soggiogato ed essa), dell’idolatria (il potere, il successo, l’intelligenza sono tutti idoli che ci succhiano l’anima ogni giorno e quelli da cui pensiamo derivi la vita: ci votiamo a loro perché è tramite loro che ci sentiamo amati tramite lodi, riconoscimenti ed altro). Liberandoci da queste tre tentazioni che avviene lo svuotamento dalla natura umana per sentire un primo passo verso la libertà.
E il secondo passo? Scalfari parla in questi termini “Tentò [Gesù] un miracolo: far scomparire l’amore per sé concentrando l’intero flusso sugli altri e addirittura prescrivendo ai suoi discepoli di amare il prossimo come se stessi. Attenzione: come se stessi. L’amore per gli altri on aboliva l’amore per sé ma si elevava come poteva allo stesso livello di sentimento”. Lo sbaglio di Scalfari è quello di aver considerato i due amori coesistenti nell’individuo: amare gli altri come si ama se stessi. Ecco il secondo idolo da abbattere: se stessi. Il giornalista non ha compreso che l’amore per se stessi ha valore retroattivo: non si può amare gli altri continuando ad amare se stessi. E’ impossibile perché altrimenti non perdoneresti, non chiederesti scusa, non pregheresti per i tuoi nemici. E’ nel momento in cui si è eliminato l’amore per se stessi (che si manifesta quotidianamente nell’orgoglio, nella superbia e nella sopraffazione verbale o di carisma) che si può amare l’altro. E vi accorgete quando riuscite maggiormente ad amare l’altro? Esattamente quando vi riconoscete non perfetti e migliori in un punto, che sarà quello che non vi farà giudicare l’altro e che anzi ve lo farà amare. Se un uomo continua ad amare se stesso  non riuscirà a perdonare anche quando ingiuriato: continuerà a sentire l’accusa sulla sua persona (tematica cara anche a Seneca) e sentirà l’accusa e l’ingiuria quando sovrastima se stesso e si ama troppo: indi per cui non si può amare l’altro se non si è abbandonato alle spalle l’amore per se stessi.

Infine Scalfari confuta la risposta dei papi “la verità è la fede”. Per lui non è soddisfacente. Ma cosa significa fede in realtà? Significa fiducia in Dio. E che significa avere fiducia in Dio? Significa fidarsi di qualcosa che la mente umana, razionalmente non concepirebbe. Ovvero? Abolire la nostra progettualità, la nostra razionalità, intelligenza, schematismo di vita, aspettativa di vita, giustizia di vita e moralismo di vita perché? Perché tutto ciò si pensa essere creato e generato da noi stessi, artefici e creatori della nostra vita e giustizia di vita. Solo così si abolisce l’amore verso se stessi e si comincia ad amare l’altro. Solo lasciando se stessi e la propria rocca costruita con perizia che si può amare l’altro, essere liberi da se stessi, fidarsi dell’ignoto e non delle proprie forze. Questa è l’unica verità di vita. Perché altrimenti ognuno porterebbe la propria verità (che è razionalmente giusta se spiegata e plausibile), ognuno parlerebbe la lingua della propria ragione accettabile e nessuno uscirebbe fuori da se stesso per amare l’altro. Allora la fede ha come radice l’abolizione dell’idolatria del proprio essere per aprirsi ad una giustizia diversa da quella che noi ci fabbrichiamo: fidarsi come principio di liberazione, come lingua universale e di amore reale.
Miriam Di Carlo

venerdì 5 luglio 2013

A tutti coloro che...non vedono un futuro. E invece c'è.

Mi dispiace ma non riesco proprio. Non riesco a non nutrire un senso di fiducia nei confronti del futuro. A volte noi giovani (parlo soprattutto di chi sta uscendo o è già uscito dall’università) leggiamo giornali, vediamo telegiornali e consultiamo un web pieno, zeppo di speranze da stracciare.
E anche io mi sono trovata, (e con me molti) a dover fare i conti sulla mancanza di una certezza futura: non c’è lavoro, per nessuno. E meno che mai per una laureata in Lettere che avrebbe come massima aspirazione quella di mettere su famiglia, una famiglia sana. E meno che mai per chi cerca lavoro onestamente senza scendere a compromessi. E meno che mai per una misantropa come me tendente a non frequentare ambienti particolarmente propensi al fascino della singola personalità. Eppure potrei, eppure riuscirei benissimo. Ma no. Ho scelto questa strada, la più difficile, la più controversa e quella che mi farà penare ma quella che ho scelto per partire. La speranza spesso viene meno: come potrò cominciare se non ho una base economica, se non ho un lavoro, se non riesco a risparmiare nulla come vorrei perché i rincari sono all’ordine del giorno? Come? Non ho mai fatto una manicure in tutta la mia vita (solo una pedicure, una volta per necessità: vi risparmio i particolari orridi), non sono mai andata in una SPA o che so io (e non ne sento né la necessità né la voglia), vado una volta all’anno dal parrucchiere perché alla fine devo (ma non ne sento veramente il bisogno). Gli unici generi di lusso su cui non risparmio sono i libri, i miei libri di studio, qualche cinema. Oltre che qualche vestito, perché si sa, noi donne alla fine siamo un po’ narcise.
Detto ciò, il risparmio non basta perché l’entrata fissa non c’è. Quindi come fare?

Mio padre e mia madre, spesso ripercorrono la storia del loro amore, come un atto di coraggio e fiducia. I tempi erano diversi, ma ogni periodo ha la sua pena, credo. Mia madre, laureata in Lettere, di buona famiglia borghese decise di intraprendere questa strada un po’ per vocazione, un po’ per emulazione…di mia nonna. Ultima di sette fratelli, mia nonna fu l’unica in famiglia che decise di dedicarsi all’università, in un mondo pugliese in cui la donna ancora non  godeva dell’emancipazione a cui invece oggi siamo abituate. E così prese la bicicletta e si recò ogni giorno nella città più vicina per fare le prime supplenze e guadagnare qualche soldo: riuscì a trasferirsi con il gruzzolo a Roma e laurearsi in Lettere con il massimo dei voti e lode dopo aver sostenuto esami con Paratore e Sapegno presso l'università de La Sapienza. Completamente da sola. Altrettanto mia madre, con una indubbia maggiore facilità sociale ma non altrettanto familiare, a causa di lutti forti.
Mio padre, laureato in Lettere anche lui. Condizione totalmente opposta: decise di intraprendere la carriera universitaria contro tutto e tutti: mio nonno, bracciante assai rinomato nella zona, possessore di cavalli e grande contadino, chiamato nel paese di Vetralla (mio borgo d’origine, in cui tutt’ora torno spesso e volentieri) con il soprannome, ormai tramandato fino a noi nipoti de “il poeta”: noi siamo le nipoti de “il poeta” Angelo Di Carlo, l’unico del paese che sapesse le ottave ariostesche, l’unico che sapesse terzine dantesche a memoria, l’unico che componesse storie rimate sulla guerra e suoi orrori, rendendole avvincenti e struggenti. Ma Angelo non voleva per mio padre la carriera universitaria: da famiglia contadina, si doveva fare vita contadina, vivere di agricoltura e autosussitenza. Mio padre, testa dura,  prese baracche e burattini e studiò. Non frequentante, rimanendo a Vetralla e aiutando i miei nonni con la campagna arrivò alla laurea presso La Sapienza con 110 e lode. Dopo la laurea, vista la penuria di lavoro andò in fabbrica, a modellare l’ottone, a Brescia. Vi rimase finché non cominciò a fare vari concorsi e diventare alla fine Docente Universitario di Geografia. C’è da aggiungere, inoltre, che lo scontro tra mio padre e mio nonno avvenne anche in campo ideologico: “il poeta” viveva nel mito del fascismo che gli aveva dato di che vivere, mio padre totalmente all’opposto, si dedicò al comunismo militante, fermando treni e contestando a suo modo il sistema. L’aneddoto più avvincente riguarda proprio una delle sue apparizioni universitarie quale docente: con pantaloncini corti si rifiutava di dare la mano perché gesto troppo borghese e strutturato.


Bene, mio padre si innamorò perdutamente di mia madre prima che entrambi potessero avere un lavoro (e quindi una base solida e certa da cui partire), appena usciti dall’università. In realtà mio padre era innamorato già da molto tempo di mia madre, ma lei lo aveva fatto ben penare sebbene pensasse intensamente a lui: nelle sere estive infatti, quando la campagna cominciava a sussultare di sollievo grazie all’arietta fresca di ponente e si tingeva dei colori arancio su rifrazione delle case tufacee, mia madre ascoltava da dietro la finestra, il fischiettio di mio padre provenire dall’orto proprio mentre lui, intento alla campagna, raccoglieva la più variegata e variopinta frutta, succosa come solo le cosce delle monache sanno essere.  Si innamorarono e non avevano nulla, se non la speranza di stare insieme. E si sposarono, senza un lavoro fisso mio padre, facendo qualche supplenza mia madre. Affittarono una casetta malmessa e malriposta, risparmiarono su acqua, luce, gas. Non andavano al cinema o a cena fuori, non bevevano vino pregiato o facevano chissà quali cure del corpo (tant’è che mia madre si tagliava i capelli da sola), non mangiavano spessissimo la carne, non indossavano capi d’abbigliamento particolarmente in (anche se cercavano in maniera del TUTTO insoddisfacente), rinacciavano ancora i calzini, ma non si fecero mancare nulla dalla vita: le loro passeggiate, le loro letture condivise, il loro amore maturato nel sacrificio ma anche nella voglia di stare insieme, diede loro la speranza ma soprattutto la felicità. E così siamo nate noi tre sorelle Di Carlo, e possiamo dire con tutta certezza che i nostri genitori non ci hanno fatto mai mancare nulla. Abbiamo sempre condiviso tutto, indossando vestiti di cugine o predecessori, spegnendo subito l’acqua o la luce o usando il riscaldamento con parsimonia, guidando una Fiat Tipo fino a pochi mesi fa ma con tanto tanto amore e voglia di vivere. Insieme e avendo fiducia nell’umanità. Sappiamo che se si semina con la luna crescente, la pianta viene male e l’insalata “spiga”, sappiamo che nelle notti di giugno si accendono le lucciole, sappiamo come si ammazza e cucina un coniglio ( e anche come si scuoia), sappiamo che significa non sentire la stanchezza del sacrificio condiviso.
Miriam Di Carlo


Ps. Ora abbiamo una casa bellissima. Ma la casa vera si forma quando stiamo tutti insieme. 

martedì 2 luglio 2013

"Salvo" premiato alla Semaine de la critique di Cannes?

Questo post riporta alcune riflessioni a proposito di “Salvo” un film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, cineasti emergenti che hanno ricevuto riconoscimenti da parte della Semaine de la critique di Cannes. Per fortuna è arrivato anche in Italia. E noi (un gruppo abbastanza eterogeneo di amici) lo siamo andati a vedere dando i nostri pareri. Alla fine avrete il mio commento...ma prima gustatevi le considerazioni di tre ingegneri, veri amanti del cinema. 





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Vite al buio
(“Salvo” di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, Italia 2013)
Palermo. 5.30 del mattino. Salvo Mancuso, giovane guardaspalle del “boss” di zona, si sveglia e si reca dal suo “assistito”. La loro auto procede lentamente lungo le strade della città, quando i due si accorgono di essere seguiti. Senza perdere la calma conducono i loro inseguitori su un'isolata stradina di campagna e si fermano ad attenderli oltre una curva. Salvo è bravo e svolge bene il suo “lavoro”: liquida presto gli assalitori, insegue l'ultimo sopravvissuto ed estorce la preziosa delazione. Si reca quindi a casa del mandante dell'agguato per consumare un'immediata vendetta, ma un incontro inatteso lo “disarma”: nell'oscuro seminterrato la sorella dell'uomo che è venuto ad uccidere conta banconote, probabilmente frutto di attività malavitose.
Lo stereo a tutto volume riempie l'aria con le note di una melensa canzoncina d'amore. Lui, non visto, la osserva; poi lei, forse intuendo la presenza di qualcuno alle sue spalle, si alza in piedi, si volta e avanza di qualche passo. Lui la vede avvicinarsi nella penombra, ma lei continua a non vederlo, e non a causa dell'oscurità ma perché i suoi occhi sono incapaci di vedere alcunché. Lui allora, per risparmiarle la vita, la rapisce.
In una rovente e assolata estate siciliana Salvo e Rita vivono costantemente al buio: il primo si nasconde “come un topo”, la seconda della luce non sa che farsene. Nel buio di una vecchia fabbrica abbandonata intrecceranno le loro vite e in un'altrettanto buia notte tenteranno di sfuggire al loro triste destino.
La quasi totalità della vicenda si svolge in ambienti foschi e polverosi, in cui caravaggesche e quasi materiche lame di luce fendono l'aria, evidenziando questo o quel dettaglio, ma senza mai concedere una chiara visione della scena. E lo spettatore, novello Pollicino perso nelle oscurità del bosco, non può far altro che seguire il percorso indicato da quei minimi elementi che trapuntano il racconto filmico; anzi, che ne costituiscono al tempo stesso l'essenza e la cifra estetica: una tendina illuminata in controluce, una fotografia sul mobile del corridoio, le mani di lui sul bordo del lavandino, le mani di lei che si muovono nell'aria, una tavola apparecchiata per il pranzo, un bidone industriale di colore rosso.
Sotto la spessa coltre di una pervasiva oscurità e nell'impossibilità di scambio verbale tra affiliati di clan rivali, i due protagonisti tessono un dialogo fatto prima di soli suoni e rumori: l'ossessivo ripetersi di una canzone, il rumore dei passi di lui, il picchiare delle mani di lei sulla porta metallica della stanza in cui è rinchiusa; e poi di contatti fisici: la forte stretta di lui sui polsi di lei, lo schiaffo di lei sulla guancia di lui, lo sfiorarsi delle gote mentre lui la aiuta a mangiare. E poi altri rumori ancora: il gracidare dei grilli, i clangori notturni di un'area industriale dismessa, il ronzare del condizionatore, due colpi di pistola nella notte.
Un film dalla trama semplice e parca di dialoghi, ma dalla fotografia d'effetto e dalle inquadrature ricercate. Azione e fissità si alternano, e i movimenti di macchina trasmettono allo spettatore il disorientamento provato dai protagonisti (ripetuti giri nella stanza accompagnano i cechi movimenti di lei, salite e discese lungo le scale seguono il punto di vista di lui).
Ma tra i sottili ossimori (il mortifero intrufolarsi del killer in stanze in cui riecheggiano le vivaci e romantiche parole di una canzone, un amore sbocciato tra le luride pareti di una fabbrica abbandonata nel cui perimetro la mafia locale seppellisce le proprie vittime) e una costante tensione di fondo (spezzata qua e là da pochi folkloristici inserti), la cinepresa indugia troppo su sudice pareti e pavimenti ingombri di arruginite ferraglie, sul profilo di lui investito da polverose folate di vento e sui sensuali riflessi che radenti fiotti di luce producono sulla silhouette di lei.
Per quanto riguarda il senso ultimo della storia, gli autori lasciano allo spettatore ampia libertà di scelta: l'amore può sbocciare anche tra nemici giurati? l'amore intenerisce anche le anime più dure? i miracoli possono accadere a chiunque e in qualsiasi momento o circostanza? O forse tutti questi e allo stesso tempo nessuno? Quale che sia il significato che vi scorgerete, l'opera prima di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza risulta coinvolgente e complessivamente piacevole, ma a tratti prolissa e manierata.

Simone Luperti, 35 anni, ingegnere elettronico.

Se fossi un boss mafioso e dovessi commissionare una produzione cinematografica, un film come Salvo sarebbe una buona scelta. Gli eroi principali, infatti, sono due membri della famiglia: sicario lui, "tesoriera" lei. Con i suoi occhi di ghiaccio, il protagonista è una sorta di Diabolik della mafia, con in più dei tratti religiosi: benedice le sue vittime prima di ucciderle, e il suo tocco arriva ad avere capacità taumaturgiche.
A parte queste premesse politicamente sospette e un po' improbabili, il film tiene ben desta l'attenzione, in particolare col lungo segmento iniziale. Lo sviluppo successivo mi è parso più convenzionale e prevedibile, anche se coerente. Qualche citazione qua e là, come le mani sul lavandino riprese da "Hunger" di Steve McQueen. Ma forse ad aver convinto la critica di Cannes è stata la bella fotografia sottotono di Daniele Ciprì.

Vincenzo Bonifaci, 35 anni, ingegnere informatico.

E' un film intenso, quasi muto, che si concentra più sulle immagine e le evocazioni che sui dialoghi e la costruzione di una storia (che è quasi sfumata). La presenza dei rumori (e non di una colonna sonora), la fotografia molto ricercata, la cura dei particolari e dei significati legati ad essi, hanno reso il film vivo quasi reale. Bravissimi i protagonisti che solo con sguardi e gesti hanno saputo rendere la dolcezza dell'amore ma anche la crudeltà e la crudezza della realtà. Unico neo: qualche minuto in meno non avrebbe guastato il tutto, avrebbe reso più fluido il racconto.

Chiara Di Carlo, 34 anni, ingegnere chimico.


Una serie di delicatezze disordinate all’interno di un panorama brullo e spinoso. La Sicilia è sempre stata terra fitta di enigmi, una fiera di genialità hanno contraddistinto un’isola divenuta crogiuolo di culture, lingue e sapori. Quel nome e cognome pronunciato in risposta ad una domanda, suona come la voce di un alunno che si presenta all’appello scolastico: “Come ti chiami?” “Salvo Mancuso”. E proprio lì si capisce che Salvo si è svegliato da un lungo sonno, con uno schiaffo tanto forte da fargli scoprire della grande alienazione che crea la mafia. Ma come si fa a dare uno schiaffo ad un sicario, armato di pistola e senza scrupoli? E’ pressoché impossibile, a patto che tu sia una ragazza cieca che, per devozione al suo ruolo di donna siciliana e per caparbietà di carattere anche tipicamente siciliano, vive la sua cecità con naturalezza e con superba fierezza. Non si può neanche sindacare sulla profondità di un amore così vissuto, perché l’esistenza è costellata di piccole solitudini in attesa di incontrarsi.
E’ un film da vedere, sebbene susciti in molti alcune incertezze di significato, coesione e veridicità nonché moralità. Ma il lato secondo me da privilegiare è proprio il contatto con la Sicilia: una terra in cui la mafia esiste quale sottofondo musicale e che impercettibilmente fa parte della vita di tutti. E così si insinua nello spettatore con la stessa normalità con cui risiede nel popolo siciliano, quale sottofondo da accettare e cui bisogna sottostare quale regola di base. Poi viene lo schiaffo, il contatto con la vita tangibile: Salvo si sveglia dalla sua cecità, dall’impossibilità di vedere che nella vita c’è una vocazione diversa da quella cui lui era asservito. Siamo affascinati dalla sua crudezza, dal suo carattere rude ma ricco di gentilezza verso quello schiaffo di donna che lo ha risvegliato. I dialoghi sono assenti ma non per questo non esistono comunicazioni sotterranee, tipiche di un gergo da interpretare. Rita beve dell’acqua e improvvisamente in Salvo si risveglia una sete vorace. Le mani della protagonista (unico mezzo di contatto con lo spazio nel momento della cecità), si intervallano a meditazioni sulle mani di Salvo. Ad una prima fase caratterizzata da buio e giochi di luci ed ombre, si sussegue un grande brano ricco di luce abbagliante e accecante che si riverbera nella campagna secca e arida di una Sicilia che non perdona.
Il fatto è proprio questo, che la storia non pretende di essere una storia universale o unanimemente accettabile, ma un pezzo staccato alla vita. Una probabilità di amore discutibile, un frammento che si è staccato, si è mostrato e poi è scomparso di nuovo, sfumando, al pari di quei corpi uccisi dalla mafia che l’aridità di una terra infuocata e il vento del Mediterraneo hanno restituito sotto forma di polvere all’aria.


Miriam Di Carlo

martedì 25 giugno 2013

Un’analisi linguistica semplice. About Berlusconi Silvio.


Il fatto è questo. Che la realtà si rispecchia nella comunicazione.
Un esempio: non esisteva il frigorifero. E’ stato inventato. E’ nata la parola “frigorifero” che poi la frequenza con cui si usa, la fretta della situazione quotidiana ha abbreviato più comodamente in “frigo”.

Ora anche per quanto riguarda dei sentimenti e condizioni astratte nuove, neonate nella società, nascono neologismi per indicare tale tendenza o sentimento. E’ il caso di stereotipi nuovi come radical chic, hipster, emo, writers e chi più ne ha più ne metta.

Ora vorrei analizzare, servendomi del dizionario dei linguisti G. Adamo e V. Della Valle (“2006 parole nuove, un dizionario di neologismi dai giornali”), il Novelli-Urbani (“Dizionario della II Repubblica”) e un saggio molto approfondito di Caffarelli in “Lessicografia e onomastica” dal titolo “Googlizzare i cognomi nella lingua di internet”, la proliferazione di neologismi a partire dal cognome di personaggi importanti: questa tipologia di neologismo si chiama deonomastico ed è di formazione molto semplice. Basti pensare ad gramsciano, andreottiano, craxiano. Come si vede sono tutte personalità che hanno segnato la storia della Repubblica Italiana, personalità di spicco.
La personalità più importanti e incisive quindi, hanno avuto l’onore di vantare un neologismo, deonomastico che riprendesse il proprio cognome: di solito si tratta di un aggettivo come i casi precedenti. Ma a proposito di Silvio Berlusconi non ci si può limitare al semplice aggettivo con suffisso –ano/a ma constatare una proliferazione enorme di composti e di derivati. Talmente tanto enorme che reca imbarazzo se non a volte ribrezzo.
Cominciamo con il Novelli-Urbani che si riferisce al periodo antecedente al 1997 essendo il dizionario stato pubblicato prima di suddetto anno. Abbiamo:
  • -          Berluschino
  • -          Berlusclonare
  • -          Berlusconata
  • -          Berluscones
  • -          Berlusconia
  • -          Berlusconi boys
  • -          Berlusconide
  • -          Berlusconi pensiero
  • -          Berlusconismo
  • -          Berlusconista
  • -          Berlusconizzarsi
  • -          Berlusconizzato
  • -          Berlusconizzazione.

Di tutti questi neologismi, nati per la maggior parte dalla mano di giornalisti si può ben vedere che molti sono occasionalismi destinati poi all’estinzione, ma anche molte parole che sono rimaste nostro patrimonio e poi introdotte nel lessico quotidiano: il caso più eclatante riguarda berlusconismo.



Adamo-Della Valle anche riporta una serie di neologismi molto interessanti. Il dizionario prende in esame un periodo più recente, fino al 2006, anno in cui vinse il centrosinistra di Prodi contro il centrodestra di Berlusconi. Era il periodo della lotta individuale tra Prodi e Berlusconi, delle tribune politiche trasmesse 24 ore su 24 in tv e della mitizzazione dei due nemici giurati. Quindi abbiamo:
  • -          Berluschese (lingua usata da Silvio)
  • -          Berluschista
  • -          Berlusconardo
  • -          Berlusconeide
  • -          Berlusconi Boy
  • -          Berlusconite
  • -          Berlusconizzante
  • -          Berlusconizzare
  • -          Berlusconizzarsi
  • -          Berlusconizzato
  • -          Berlusconizzazione
  • -          Imberlusconirsi
  • -          Postberlusconiano
  • -          Neoberlusconiano
  • -          Contrberlusconizzare
  • -          Deberlusconizzato


E che dire invece dei deonomastici derivati da Prodi? Abbiamo il debole “prodismo” che non sappiamo nemmeno più cosa designi realmente, “prodizzazione” “sprodizzare”: il significato sta proprio in questa differenza. Il centrosinistra vinse le elezioni per un pugno di voti in più ma vinse e vinse grazie alla figura di Romano Prodi: quindi avremmo dovuto inneggiare a tale personaggio, formare una sequela di còni e neoformazioni che attestassero la sua forza in campo… colui che aveva vinto le elezioni. No, la debolezza del centrosinistra si vede anche a livello linguistico: nessuna personalità fu mai tanto forte e potente, non è riuscita mai a sollevare le sorti della sinistra e ad imporla tanto da creare un alone di intangibilità aulica intorno a sé. E dico menomale perché ben si sa che ogni forma di democrazia, per il prevalere di una sola identità carismatica e che catalizza su di sé potere, fascino e onnipotenza, prevede la degenerazione naturale in tirannide. O in santità e martirio.
Arriviamo a Caffarelli e il suo saggio sul “Googlizzare i nomi in intenet”. Lo studioso afferma a proposito di Berlusconi “l’esposizione mediatica e gli aspetti politici, sociali, etici ed economici connessi con la figura dell’imprenditore (…), e alle sue molteplici attività, (…), ad apprezzamenti di diversa qualità e natura” hanno prodotto una grandissima quantità di neologismi basati sul cognome del politico. Caffarelli ne rileva una quantità enorme, data anche dall’ampiezza di trasmissione e facilità di scrittura peculiare di internet. Ne faccio solo alcuni esempi: si va da aggettivi come berluscabile e berluscaioli o imberlusconito, a sostantivi come berluscaggine e berluscanesimo, verbi come berluschizzare, deberlusconizzare e sberlusconare, avverbi come berluscamente e berlusconiamente, prefissati come preberlusconisno, suffissati come silvioberlusconismo, confissati berlusconifobia, berlusconopoli, composti come berlusconipensiero, nazionalberlusconiano, parole macedonia come berluscandalo, berlusconsumista, Berluscraxi, calembour come bar Lusconi, Belluscone, Berlusc One, Paperon de’ Berlusconi, giustapposizioni come ciclo Berlusconi, virus Berlusconi.

Conclusione:
Giustizia si spera venga fatta, ma non si pensi minimamente che un personaggio del genere se ne vada dalla mente degli italiani solo grazie alla Giustizia. Una personalità sfuma nella storia fino a lasciare un ricordo vago solo a patto di una sconfitta politica: i casi sono molti che si perdono nella notte dei tempi. Ma un’identità politica del genere ormai è talmente tanto radicata nella nostra mentalità, nella nostra società da essere divenuta un background generale: si è infiltrata come acqua mefitica nel nostro terreno troppo argilloso e mai lo abbandonerà finché l’acqua non evaporerà totalmente ovvero fino a che tutte le particelle di H2O saranno scomparse totalmente ed evaporate con lui(quella più ostinata sarà la particella-Santanchè ma anche la Micky Biancofiore). E anche lì avrei i miei dubbi, perché il monumento alla persona ormai è stato effettuato e mai abbandonerà i nostalgici che tanto hanno sperato in lui, che tanto lo hanno amato e che tanto faranno ancora uso di una retorica becera di serie Z.
Ma che dire invece dell’ ”antiberlusconismo”? Anche dall’altra parte non si è pensato di fondare una politica su un sentimento nuovo che si svincolasse da Silvio. No, si è prelevato pari pari il suo cognome e si è fatta bandiera, rafforzando il suo mito e stigmatizzazione. Perché ben si sa, tanti nemici, tanto onore e “beati i perseguitati per causa di Silvio” perché di essi è il regno di Arcore e delle Olgettine. Allora rassegnamoci, dopo questo godimento iniziale dato dalle notizie ultime, che la nostra Italia vedrà tra le icone da bancarella il Colosseo, il papa, il nasone di Dante ma anche Mussolini e ovviamente lui, Silvio che fa le corna e sbeffeggia tutti quanti noi: c’è modo e modo per rimanere immortali.

Miriam Di Carlo