Visualizzazione post con etichetta Dibattito. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Dibattito. Mostra tutti i post

giovedì 21 novembre 2013

Perché non sono d’accordo con Domenico Naso de “Il fatto quotidiano” a proposito di #Gazebo.


Leggo con interesse la critica che il giornalista televisivo de “Il Fatto” ha pubblicato circa il format “Gazebo” in onda il martedì, mercoledì e giovedì in seconda serata su Rai3. Premetto onestamente, che seguivo Zoro solamente in “Parla con lei”, rimanendo rapita dai video sulle diverse anime del Pd. Quindi salvo il Blog di Diego Bianchi e questi passati esperimenti televisivi, non posso fare un confronto a 360°: ma proprio per questo la mia testimonianza potrebbe essere maggiormente valida.

Il titolo di Domenico Naso già esordisce con un paragone che forse, tranne la fascia oraria, non regge: Gazebo come Porta a Porta ma di sinistra. Porta a porta è tutt’altra cosa: nello studio di Vespa sono invitati esponenti politici e il vero fulcro è il talk show politico, che ospitò un tempo anche Berlusconi e Prodi. In Gazebo non c’è alcun talk show: non si assiste all’accavallarsi di voci, di discorsi, di scontri verbali e non. Il format di Bianchi, Salerno, Sofi, D’Ambrosio (in arte Makkox), non nasce dal gusto per il diverbio improvvisato ma nasce come un giornale televisivo, per chi non l’avesse capito. E’ una testata giornalistica, con tanto di vignetta satirica (al posto di Altan): c’è spazio per il reportage, per l’indagine che potrebbe sembrare distorta e grottesca ma che rivela quanto sia paradossalmente reale (Mirko Matteucci: e posso testimoniare che la fauna che tocca tangenzialmente i vari taxi rappresenta un campionario variopinto e quanto mai ideale del paese, sia con una visione interna proveniente dalle varie Italie, sia con una visione esterna proveniente dall’Estero), c’è posto per un commento pacato, irriverente ma non troppo, veritiero ma mai pregno di quell’autocommiserazione rasente il suicidio di cui il M5S tanto taccia il PD: una trasmissione garbata, la definirei. Forse lontana dall’ANTI-garbo e intemperanza cui siamo stati abituati dalle ultime elezioni. Certo, i simbolismi, le ironie e i significati lasciati all’intelligenza dello spettatore non possono essere capiti da tutti ma ecco, io vengo da Viterbo, in realtà da un paesino della provincia di Viterbo e posso dire che mi piacciono, mi coinvolgono perché riescono a dissacrare senza inveire o mandare a cagare per forza.

Altra punta di diamante oltre Makkox e i reportage, sono le social top ten di cui, proprio gli accaniti sostenitori della democrazia liquida, dovrebbero riconoscerne l’importanza e presente e futura. Non solo per la potenza mediatica ma soprattutto per la contropartita e il lato oscuro del tweet: l’incapacità comunicativa, il lapsus, la coerenza si manifesta in maniera patente nel cinguettio lanciato. A volte più che un cinguettio un vero e proprio latrato cacofonico.


Infine proprio la seconda serata assicura al programma quel tanto di protezione necessaria: se fosse stata una prima serata sarebbe stata azzardata, ma la seconda serata fa sì che gli aficionados, gli ironici e sagaci possano lottare con la loro narcolessia pur di assistere alla politica in&out dei Palazzi. Questo programma è nato così, come interazione di media, come osmosi della comunicazione ed è potenzialmente una bomba mediatica: sta ai produttori mantenere questo tenore sempre alto e non disattendere quei fedelissimi che stanno sempre diventando più numerosi, precettati dalle battute salaci di Zoro non solo a Roma ma pian piano anche nelle altre Italie. E se si contesta il personaggio di Diego Bianchi bisogna anche vedere che il programma è basato su di lui, sulle sue idee ma anche su altre anime che rendono la trasmissione una testata giornalistica polifonica con tanto di intrattenimento culturale dato dalla musica di Angelini. Il reportage è Zoro, la cornice ha essenzialità solo nel momento in cui si hanno i cammei delle varie anime che spuntano nella trasmissione straniandone i punti di vista, accolti come arricchimento e non come diversità estranea. 
Miriam Di Carlo

venerdì 8 novembre 2013

Da dove l'Italia può ripartire? Le matricole lo hanno capito.

Oggi vorrei partire da una costatazione costruttiva nata su suggestione di due articoli letti su due diversi giornali (un quotidiano e un periodico settimanale), per poi continuare con una critica in relazione ad altre tendenze in voga. 

1)      La costatazione costruttiva nasce in merito ad un’indagine recente circa le nuove tendenze delle iscrizioni universitarie: esse sono lo specchio dell’economia contemporanea e rilevano i settori in cui i giovani vedono il futuro dell’Italia riponendo in essi le loro speranze. In un periodo di crisi, ovviamente non si può giocare sull’università, non si può perdere tempo e denaro o gingillarsi con una facoltà che si sa non potrebbe portare a nessuna sicurezza futura: si cerca di puntare sul dato maggiormente certo e concreto. Confrontando i sondaggi di due quotidiani diversi si nota che si è avuto un boom di iscrizioni in Agraria, Biotecnologie e Lingue. Lettere, Giurisprudenza e Ingegneria mantengono lo stesso numero di iscritti senza incrementi positivi o negativi. In netto calo il numero di iscritti ad Architettura e Farmacia. Cosa ne possiamo desumere? In concreto l’Italia non può ripartire solo dal Turismo: può ma non deve basarsi solo su questo. L’altro settore in cui può puntare non è certo l’industria perché abbiamo capito che con la gestione all’italiana dell’azienda (reminiscenza e ancorata ancora a vecchie maestranze ed artigianato le quali però ci assicurano punte di eccellenze nel campo della moda e della pelletteria) non possiamo essere grandi competitori a livello europeo e nazionale. Il settore su cui puntare è invece quello agricolo a mio avviso per diversi motivi. A) primo tra tutti bisogna partire dalla conseguenza del settore primario ovvero il prodotto nel momento della consumazione: la cucina italiana è considerata l’eccellenza, è famosa in tutto il mondo per la bontà, qualità e creatività ma anche soprattutto economicità. Ciò che ha reso la pizza e la pasta famosi è proprio il rapporto qualità/prezzo: pizza e pasta sono le portate più economiche del menù e rappresentano la base dell’alimentazione. B) L’Italia è conosciuta per la qualità dei prodotti: abbiamo un grande controllo sui prodotti che invece non si ha negli altri paesi come per esempio la Spagna. Questo crea una doppia frizione perché se da una parte siamo produttori di eccellenze agroalimentari,  spesso perdiamo nella esportazione di massa visto che abbiamo forti limitazioni su OGM, conservanti, coloranti, edulcoranti ecc. Ottimo dato, direi perché questo ci permette di cavalcare l’onda del salutismo, incrementato dalle paure contemporanee di tumori e altre malattie. Effettivamente l’Italia presenta una longevità maggiore rispetto ad altri stati. Ottimo anche perché i prodotti sono buoni oltre che sani: la vista magari non viene appagata come nel caso degli OGM ma il gusto ne esce enormemente soddisfatto. C) La causa: il clima, il territorio e la cultura italiana si prestano ad incrementare l’azienda agricola. Essa è connaturata nella nostra cultura e mentalità ma soprattutto è incentivata e facilitata dal clima del nostro Bel Paese: inverni miti e mitigati dal mare, estati anch’esse miti e non particolarmente calde date dalla morfologia allungata e non continentale del nostro territorio (in Spagna, paese che possiamo comparare a livello di latitudine con l’Italia,  sono presenti molti deserti caldi e impraticabili proprio per la morfologia continentale). D) ultimo ma non da sottovalutare l’importanza della moda-cucina che sta dilagando negli ultimi periodi su Tv, Social Network, blog. Una delle più importanti blogger italiane, Chiara Maci ha fatto della sua passione lavoro così come molti cuochi sono ormai conosciuti non solo per i loro ristoranti ma anche per le loro creazioni. Ecco, mi sento di dire che possiamo fare di più da questo punto di vista: abbiamo le materie prime giuste, i prodotti adeguati e soprattutto la cultura e la creatività per avere più primati in questo settore: infatti i cuochi migliori del mondo contano un solo italiano e ben tre spagnoli. Tra l’altro la Spagna detiene il primato e la Danimarca (???) il secondo posto mentre noi ci dobbiamo accontentare di un bronzo 1- El Celler De Can Roca - Girona, Spain  - Best in Europe & The World. 2- Noma  - Copenhagen, Denmark. 3- Osteria Francescana - Modena, Italy. 4- Mugaritz - San Sebastian, Spain. Ecco, io ripartirei da qui perché nella cucina italiana si fonde settore primario (agricoltura), secondario (la gestione aziendale dei prodotti che dovrebbe essere potenziata: industria agroalimetare), settore terziario: turismo. En passant un’osservazione sull’incremento degli iscritti di Lingue (sintomo che i rapporti internazionali a livello europeistico e internazionalistico stanno diventando simbolo del futuro. Mezzi di comunicazione di massa, mezzi di trasporto sempre più veloci ed economici fanno sì che gli scambi tra Paesi diversi e lontani siano all’ordine del giorno) e sulla disfatta di Architettura (sintomo dell’impossibilità economica di comprare, arredare e sistemare architettonicamente gli immobili. Forse l’Italia dovrebbe puntare maggiormente sul restauro ma anche lì c’è una falla nel sistema dei finanziamenti e dei Beni Culturali) e di Farmacia (altro sondaggio recente dimostra che si è avuto un calo notevole nell’acquisto dei medicinali grazie alla rivalutazione dell’omeopatia e parafarmacologia nonché al miglioramento degli stili di vita).

2)      Ripartiamo da qui e non dal Vintage, please. Vespa, Piaggio, Delonghi non torneranno indietro. Ora ci sono Stati più competitivi e in gamba di noi. 
Miriam Di Carlo

giovedì 10 ottobre 2013

La paura outcoming e incoming dell'Italia cavalcata da Grillo.

Il giorno in cui apprendo del grande successo in Francia del Movimento Nazionale, comincio a capire quanto l’Europa, soffocata dall’economia mondiale stia diventando, nelle varie manifestazioni nazionali, xenofoba, esterofoba, violenta verbalmente e fisicamente. Hollande è preoccupato. Ma caro Hollande, che dovrebbe dire l’Italia?
Infatti proprio oggi esce un nuovo post di Grillo dal titolo “Reato di clandestinità”[1]. Tutti si meravigliano, tutti esprimono il proprio diniego. Ma da un Movimento che faceva l’occhiolino a Casa Pound, quale proposta alternativa si poteva avere? Una precisazione: da notare, con grande gioia che l’opinione dei due capoccia non corrisponde con quello degli onorevoli e senatori a 5 stelle, i quali hanno dimostrato di essere coerenti con i principi umanitari di cui credevano essere portavoce. Eh, no. Non ci siamo. Grillo lo ha ribadito più volte nei suoi comizi: Beppe ha mostrato la volontà di chiusura dell’Italia, su diversi fronti. Vediamoli:

-          Prima cosa la chiusura dell’Italia verso l’Europa (politica anti-outcoming). La paura di essere schiacciati dalla Germania, ha indotto Grillo, secondo un’analisi semplicistica e con ottica prettamente europeistica ma anche senza un minimo di visionarietà sul futuro, a proporre una chiusura all’euro entrando di nuovo alla Lira. In un primo momento devo essere sincera che mi sono quasi persuasa di questa soluzione, perché leggendo articoli di alcuni economisti avevo notato quanto l’Italia guadagnasse da questa scelta. Ma il problema è un altro. Ormai l’Italia non è niente se non c’è l’Europa. E questo non vale solo per l’Italia ma per tutti gli stati dell’Unione Europea. Guardiamo un attimo un mappamondo. Quanta superficie ha l’Europa? Quanta crisi sta avvertendo l’Europa? I paesi che stanno dimostrando capacità e risorse economiche non sono solo Cina e Brasile ma tutti gli altri Paesi in via di sviluppo, i quali, consapevoli della grande debolezza dell’economia occidentale stanno entrando in gioco, e velocemente. Ora, con questi colossi che si affacciano e crescono sempre di più (e noi contribuiamo ad alimentarli poiché i prodotti cinesi sono molto più economici di quelli italiani), che opportunità ha l’Italia senza l’Europa. Se qualcuno di buona volontà riesce a spiegarmelo ne sarei felice. L’Italia, da sola con il settore moda e la gastronomia? Un settore automobilistico che investe all’estero, l’Alitalia che non esiste, gli altri campi industriali fagocitati, e scusate…ah, sì. Il famoso artigianato italiano. Ma dove andiamo? Se non uniamo le forze di tutti gli stati europei, finirà che l’Europa sarà il grande relitto del Mondo, messo sotto vetrina solo per andare a vedere il passato di una civiltà antica. E da questa osservazione si può capire che, a mio avviso, anche in un futuro, la vera forza dell’Europa e dell’Italia in particolar modo è il Turismo. Come ha acutamente osservato Diego Della Valle[2] (uno dei pochi imprenditori italiani che sappiano il loro mestiere applicando un’ottica trasversale) bisogna ripartire dal turismo per rilanciare l’Italia in Europa, e l’Europa nel mondo. Se poi ci chiudiamo, ecco che diventeremo automaticamente la Calabria dell’Europa.  E il rudere antico del Mondo.
-          Seconda chiusura dell’Italia verso l’immigrazione (politica anti-incoming). La paura economica cavalcata da Grillo nella precedente affermazione, ritorna anche nel post di oggi nella denuncia all’abolizione del reato di clandestinità. Una domanda che mi sono sempre fatta ascoltando Grillo e la Lega: si può fare politica usando le paure dell’uomo?[3] Grillo appare convincente a tutta quella popolazione che non riesce a sostenere economicamente la propria vita: li chiama personalmente davanti al tribunale del voto al M5S. Il concetto basato sul perbenismo e cieco egoismo è: gli extracomunitari lavorano, gli italiani no, perché dobbiamo tenere questi a casa nostra, perché dobbiamo accogliere persone che ci tolgono quello che è nostro? Caro Grillo, il diritto umano è solo tuo? Caro Grillo, la terra è solo tua? Caro Grillo non fai parte di un’umanità o non ti riconosci nell’uguaglianza dei popoli? Caro Grillo non pensi che tu sei stato molto fortunato e furbo ad avere tutti gli agi che hai e che invece ci sono persone che vivono in paesi terribili in cui non hanno mai vissuto pace politica o pace economica? Caro Grillo, sei investito dall’alto per decidere chi deve vivere e chi no? Cosa cambia dal “farsi i fatti propri” del berlusconismo? Che Berlusconi lo faceva semplicemente con la sua villa e che ora tutta l’Italia lo fa con gli altri paesi secondo il principio: sto in difficoltà, andate a cagare tutti perché devo sopravvivere solo io? Un calcio di qua e un calcio di là, via qualche diritto umano, adottiamo qualche diritto europeo, facciamo un ritaglio di qua, cerchiamo di progredire così. E invece dietro si nasconde la più grande involuzione umana, la cecità dello Stato chiuso per paura, l’incapacità di considerare l’intera umanità nella sua completezza, complessità. Non si tratta di fare i perbenisti. Si tratta di essere umani, concetto e sentimento che a vedere dalle manifestazioni di Casa Pound nel quartiere Vittorio Emanuele di Roma, è stato completamente dimenticato. Una paura intrinseca dell’uomo, quella di perdere la propria identità e di perdere in generale ha cavalcato la crisi economica del momento abbinandosi alla paura della mancanza di denaro.
Sono dell’idea che calpestare i diritti fondamentali di un qualsiasi essere vivente attraverso una legge che renda lecito il danno etico a causa del problema materiale dell’uomo sia la più grande illusione che possa portare l’uomo nel buio.
 Miriam Di Carlo



[1] Accanto potrete comprare anche il nuovo libro di Gianroberto Casaleggio che, dopo l’intervista concessa a Oggi o Chi (non frequento questi giornali) invia il suo nuovo messaggio alle nuove generazioni attraverso un’ironica stigmatizzazione della propria vita. Come se l’ironia possa eludere dall’impressione che ci sia dietro un intento quasi mitico. Gianroberto, ma prima di questo, chi eri?
[2] Diego Della Valle ha recentemente sovvenzionato i lavori di restauro del Colosseo. Ora pensateci…il simbolo nazionale italiano, che ha 2000 anni, ristrutturato. Bene, che sia uno stimolo di rinascita dell’Italia intera.
[3] Alla fine persino Berlusconi ha fatto leva sulla speranza. Su una speranza cieca e illusoria, priva di senso e completamente vuota ma ha puntato su una speranza: la visibilità glitterata dell’uomo e il condono delle proprie inettitudini morali. 

lunedì 7 ottobre 2013

Su #PiazzaPulita, il servizio di Sortino e noi giovani

Sono reduce da un servizio su Piazza Pulita curato da Alessandro Sortino. Diffido, dopo tutti questo talk shows politici e politichesi, il servizio ammiccante, di facile presa, il sondaggio opinabile e scientificamente non provato (non si mostra mai su che base si rilevi il campione) ma la puntata di stasera ha reso con efficacia uno spaccato di vita con cui noi giovani siamo costretti a confrontarci ogni giorno.
Anzitutto siamo giovani e ciò che è emerso è che i giovani hanno bisogno di sperare, o almeno hanno bisogno di qualcuno che apra uno spiraglio sulla speranza. Franceschini ha criticato l’accostamento fin troppo facile tra politica e chiesa la quale è la sola che riesca in questo momento a dare una speranza. Effettivamente fino ad oggi, colui che ha dato una speranza è stato solo Berlusconi: ha dato la speranza della visibilità, della notorietà, del lustrino, dello status symbol (incarnato nella sua stessa persona, vista come il massimo idolo da raggiungere e raggiungibile) relegando ai margini della società la cultura, la sostanza, la morale e l’etica in tutti i campi. Ma chi aveva bisogno di questa tipologia di speranza? Chi ha votato questo modello di visione sul futuro? Ovviamente la generazione dei nostri padri: una generazione con genitori coinvolti nelle guerre mondiali, nati in contesti poveri o in cui non sia aveva grande benessere e che improvvisamente hanno visto una crescita economica spropositata rispetto al passato. Raggiunto un benessere omogeneo, la speranza non era più rappresentata da questo benessere quanto da qualcosa in più che arricchisse il leitmotiv del benessere: il modello di Berlusconi. E’ meraviglioso vedere che, nel servizio di Sortino, quei casting per il Grande Fratello che prima erano così piani di gente, ora siano decimati; che i modelli siano altri e che l’austerità non è più una regola, quanto una necessità di vita, che sposa la sobrietà.
Con grande rammarico, non si può non osservare che la generazione uscente, volente o nolente, si è fatta prendere da questo grande benessere e ci ha trasmesso valori e parametri sbagliati, ormai inadeguati alle esigenze di una nuova generazione di giovani che vorrebbe sperare in qualcosa di reale e concreto.

Che fa ogni giovane ogni mattina?
Si alza, si prepara la colazione, accende la televisione e scopre, con grande frustrazione che la disoccupazione giovanile cresce ogni giorno di qualche punto percentuale, che la crisi aumenta e strozza. Ora, con tutta la buona volontà, come fa un giovane a vivere la su vita a cuor leggero?

Quindi in fin dei conti siamo una massa di laureati, magari anche con più competenze tecniche, scientifiche e umanistiche rispetto ai nostri padri ma con l’incapacità di introdursi nella società e avere un posto indipendente perché c’è ancora una generazione che dovrebbe uscire e non lo fa, sebbene abbia garantiti ammortizzatori e servizi che probabilmente noi ci dimenticheremo un giorno che siano mai esistiti.  

Ma allora perché ci avete fatto studiare se poi non possiamo intervenire a salvare questa catastrofe che avete generato con il sopore passato della vostra ragione?
Miriam Di Carlo

domenica 14 luglio 2013

Ci son due Calderoli ed un Orango Tango, un'idiozia reale...

Ci son due Calderoli ed un Orango Tango, due piccoli dementi, un’idiozia reale, un Bossi, un Trota, un Maroni, non manca più nessuno, solo non si vedono i Mezzogiorni.

La grande sciagura della dichiarazione pubblica di Calderoli è il subire incessantemente sue foto e filmati da un giorno a questa parte. Volete renderlo ancora più inviso? Bene, questo è il modo giusto. Se dovessimo adottare una teoria fisiognomica (come in un certo senso ha fatto lui con la Kyenge) secondo cui i tratti somatici corrispondono a caratteristiche intellettive e morali, Calderoli non ne uscirebbe molto bene: non è proprio un Adone, e, diversi anni fa sfoggiava una bella pappagorgia degna dei migliori pellicani, facendo invidia al signor Borghezio, la cui pancia potrebbe benissimo sfamare tutto un intero continente. Quello che lui taccia di inferiorità.

Ma con “orango”, sinceramente ci è andata anche bene: chissà quanti appellativi, insulti e schifezze varie diranno i leghisti nelle loro convention votate al Dio Po. Dopo aver esaurito le sacre acque del fiume, si danno al vino, al convivium: a sparare cazzate. Così si è sviluppata la Lega.
La Lega però non nasce così, davanti a un tavolino, un po’ di Gorgonzola e un’ampolla magica. No, la Lega, così come il M5S nasce come emanazione di una singola personalità, la quale forte di paure e insofferenze riscontrate in molti individui, decide di farsene portavoce al fine di ricevere consensi. La lega, aglli albori della sua ascesa politica si fece strada presentandosi come l’anti-partito che voleva scardinare il sistema politico vigente, al fine di reintrodurre una sorta di integrità etica. Il movimento che si formò, diventa forte dei propri “valori” ideologici, che oltre ad essere bandiera (come si nota essi sono molto ben delineati rispetto a quelli di  altri partiti), sono punto di forza e coesione di un gruppo compatto e monolitico. Nei discorsi alla Camera per esempio Bossi usa non solo un linguaggio colloquiale, non solo parole che non si sentono uscire dalla bocca di altri parlamentari e che sono tipici di un registro medio-basso, ma soprattutto si permette di richiamare il silenzio a modo suo, in maniera perentoria e da leader indiscusso: “Silenzio!”. Questo linguaggio ha degenerato piano piano, si è infiltrato nella politica e oggi ne abbiamo subita una delle tante conseguenze che siamo costretti ad ascoltare. Segno che, se si leicizza ogni forma di bassezza linguistica (che in questo caso cela un giudizio improprio) facendola passare per una maggiore trasparenza davanti a discorsi troppo artificiosi e costruiti, ecco a che punto si potrebbe arrivare: che le parole non passano dal cervello, non vengono più pensate e si sputano tranquillamente. (Ma in questo caso particolare credo che, se pure le parole fossero entrate nel cervello di Calderoli prima dell’enunciazione pubblica, non è che avrebbero subito grandi trasformazioni). Attenzione fortemente quindi ai Vaffa, che oggi sono diretti verso la Kasta ma domani potrebbero benissimo essere rivolti dai vostri figli a voi.
Inoltre l’emanazione dal leader si manifesta anche a livello sintattico e della struttura della frase: molti sono i punti di accordo tra Lega e M5S, singolarità tipiche di solo questi due partiti, assenti in altri.

Infine lascio ai filosofi le caratteristiche che riguardano la xenofobia vista come paura del diverso e punto di forza coesiva di un gruppo la cui singola persona presenta forti debolezze e fragilità. 
Miriam Di Carlo



Campioni di bellezza e intelligenza umana. 




giovedì 11 luglio 2013

Esiste un Santo Nume tutelare degli Italiani? Se no, forse lo stiamo creando.

Per il 31 Luglio ho comprato un Berlucchi e un Brachetto d’Aqui. Non capisco nulla in tema di spumante ma mi hanno detto che per ben festeggiare si fa così. Quindi li tengo al fresco. Sono indecisa se fare una sorta di Ramadan: cioè un lungo digiuno-fioretto propiziatorio il 29 luglio per poi lasciarmi a quanto di più grottesco e godurioso possa produrre l’industria gastronomica italiana. Il 30 Luglio non mi chiamate, non mi cercate, non ci sono.

Si festeggerà, se il Santo Nume tutelare degli italiani vuole, la fine di un’era. Di Silvio Berlusconi ma anche dell’antiberlusconismo che ha rinvigorito e martirizzato il suddetto personaggio, rendendo invisa la magistratura e la legalità agli occhi dei primi indecisi, poi radicati e infine fossilizzati sul mito di Silvio.
Infatti se paghiamo ora le conseguenze della grande persecuzione ai danni del beato Silvio da Arcore (la santificazione non si può applicare su chi è immortale) è per colpa di un atteggiamento politico e sociale nato in opposizione al politico in questione, ma che, abbagliato e ottenebrato dall’odio, non ha fatto altro che rinforzare l’idea di un grande martire da salvare. Tutti ce l’hanno con lui, tutti lo odiano immotivatamente, tutti lo scherniscono senza alcuna giusta causa. Quindi da una parte si delinea la figura dell’antiberlusconiano becero che addita e respinge (giustamente) ma che non mantenendo lucidità finisce per farsi prendere la mano un po’ troppo inveendo a spada tratta contro la stupidità umana, dall’altra per contro, ci troviamo il sostenitore medio di destra che, vista l’acribia del primo tipo sociale, difende strenuamente il Cavaliere, arrivando non solo a farselo piacere politicamente, ma anche socialmente, eticamente e culturalmente: si ha così la nascita del mito.
Il berlusconismo e l’antiberlusconismo hanno quindi caratterizzato questa era che probabilmente, ci lasceremo alle spalle. Non cesserà di esistere il berlusconismo: esso è un atteggiamento non solo politico ma ormai sociale e culturale che ha allevato intere generazioni le quali saranno prossime a diventare le basi su cui si fonderà la futura Italia. I concetti del “beh, lo fanno tutti”, del “voler tutto con il minimo sforzo”, del “massimo della forma, minimo della sostanza, tanto chi se ne accorge”, del “essere simpatici a basso costo per far colpo”, del “maschio italico dalla vigoria e virilità latina” ormai hanno impregnato la vita di tutti i giorni e continueremo a subirli fino alla fine dei secoli dei secoli, amen. Anche io ne sono stata sedotta involontariamente e chiunque, sfido, sono sicura possegga almeno un oggetto in casa che rimandi al grande imprenditore. Bisogna dare atto che è stato un personaggio carismatico, attento al gusto medio italiano sul quale fare presa, allerta sui bisogni più ancestrali ed egoistici che esistono nell’uomo per poi renderli palesi attraverso il soddisfacimento legalizzato di tale istinto, normalmente tacciato di infamia. Ovvero ha palesato (non attraverso la denuncia ma attraverso la proposta di soddisfazione) bisogni reconditi nascosti a noi stessi, li ha resi “normali” e “naturali” quindi “legali” nella natura umana, e vi ha posto rimedio attraverso la sua personalità che ha rappresentato l’incapacità dell’uomo di avere una coscienza e di ammettere i propri errori e limiti. Berlusconi è stata la grande giustificazione per l’uomo verso la sua immoralità: si è dimenticato che etica e morale (non moralismo) sono basi fondamentali per la crescita e il progresso sano di una civiltà in cui ognuno, consapevole dei propri doveri, si responsalizza nei confronti dell’altro, garantendone la libertà e la dignità.

Ora sugli scenari che si aprono davanti al PdL, lascio il campo a chi più di me se ne intenda, ma vorrei solo meditare sul fatto che B. non voglia far cadere il Governo (dicunt) mentre siano più i suoi discepoli (ormai quasi apostoli) a prospettare tale soluzione. Immaginiamo la scena:  il grande statista B. che a tavola, con i suoi, prima del martirio, spezza il pane e rifiuta qualsiasi proposta di salvezza: andrà avanti per il bene dello Stato. Prostrerà il capo con una corona di capelli nuovi, denunciando e testimoniando non con le parole ma con il suo atteggiamento fiero. Incorrerà nella sentenza ante tempore (per niente tra l’altro, Gomez lo ha spiegato bene in molte occasioni): carcere o servizi civili.
No, il carcere no. Non lo voglio io: rischierebbe di creare una piccola Arcore nel carcere, corrompendo secondini e guardie affinché gli portino un bel cosciotto di agnello mentre il vicino di cella mangia il semolino liofilizzato: meglio allearsi con lui piuttosto che mangiare semolino fino alla fine dei giorni. Meglio farselo amico, magari con qualche regalo e vedrai che il cosciotto arriva pure alla cella vicina.
Preferirei i servizi sociali. Sì. Che si stanchi per una volta. Che faccia qualcosa che ha solo immaginato e mai visto né sentito raccontare. Che subisca un po’ la vita, e non sia lui a farla subire agli altri. Che cominci a capire come gira l’animo di un uomo e non solo il suo primitivo istinto di sopravvivenza.  Allora a quel punto, dopo la conversione, il cieco tornerà a vedere e magari aspirare veramente a un gloria maggiore di quella che con perizia si è creato magistralmente con le sue mani.

Ora vorrei solo che, visto ciò che ha creato l’antiberlusconismo, non si ricada nell’errore dell’antigrillismo: che si cerchi di far ragionare attraverso il dialogo, base prima della progressione attraverso un processo continuo di affermazione ma anche di umiltà e di regressione.
Miriam Di Carlo

P.S. Colgo l’occasione per fare i miei più cari auguri telematici a Marco Di Caprio, oggi dottore in Italianistica presso l’Università degli Studi Roma Tre riportando il voto di 110/110 con lode. L’argomento trattato riguarda i cromatismi nella lirica provenzale.  Capisco che non ve ne possa fregare di meno, ma io ci tengo che si sappia.


martedì 2 luglio 2013

"Salvo" premiato alla Semaine de la critique di Cannes?

Questo post riporta alcune riflessioni a proposito di “Salvo” un film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, cineasti emergenti che hanno ricevuto riconoscimenti da parte della Semaine de la critique di Cannes. Per fortuna è arrivato anche in Italia. E noi (un gruppo abbastanza eterogeneo di amici) lo siamo andati a vedere dando i nostri pareri. Alla fine avrete il mio commento...ma prima gustatevi le considerazioni di tre ingegneri, veri amanti del cinema. 





------
Vite al buio
(“Salvo” di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, Italia 2013)
Palermo. 5.30 del mattino. Salvo Mancuso, giovane guardaspalle del “boss” di zona, si sveglia e si reca dal suo “assistito”. La loro auto procede lentamente lungo le strade della città, quando i due si accorgono di essere seguiti. Senza perdere la calma conducono i loro inseguitori su un'isolata stradina di campagna e si fermano ad attenderli oltre una curva. Salvo è bravo e svolge bene il suo “lavoro”: liquida presto gli assalitori, insegue l'ultimo sopravvissuto ed estorce la preziosa delazione. Si reca quindi a casa del mandante dell'agguato per consumare un'immediata vendetta, ma un incontro inatteso lo “disarma”: nell'oscuro seminterrato la sorella dell'uomo che è venuto ad uccidere conta banconote, probabilmente frutto di attività malavitose.
Lo stereo a tutto volume riempie l'aria con le note di una melensa canzoncina d'amore. Lui, non visto, la osserva; poi lei, forse intuendo la presenza di qualcuno alle sue spalle, si alza in piedi, si volta e avanza di qualche passo. Lui la vede avvicinarsi nella penombra, ma lei continua a non vederlo, e non a causa dell'oscurità ma perché i suoi occhi sono incapaci di vedere alcunché. Lui allora, per risparmiarle la vita, la rapisce.
In una rovente e assolata estate siciliana Salvo e Rita vivono costantemente al buio: il primo si nasconde “come un topo”, la seconda della luce non sa che farsene. Nel buio di una vecchia fabbrica abbandonata intrecceranno le loro vite e in un'altrettanto buia notte tenteranno di sfuggire al loro triste destino.
La quasi totalità della vicenda si svolge in ambienti foschi e polverosi, in cui caravaggesche e quasi materiche lame di luce fendono l'aria, evidenziando questo o quel dettaglio, ma senza mai concedere una chiara visione della scena. E lo spettatore, novello Pollicino perso nelle oscurità del bosco, non può far altro che seguire il percorso indicato da quei minimi elementi che trapuntano il racconto filmico; anzi, che ne costituiscono al tempo stesso l'essenza e la cifra estetica: una tendina illuminata in controluce, una fotografia sul mobile del corridoio, le mani di lui sul bordo del lavandino, le mani di lei che si muovono nell'aria, una tavola apparecchiata per il pranzo, un bidone industriale di colore rosso.
Sotto la spessa coltre di una pervasiva oscurità e nell'impossibilità di scambio verbale tra affiliati di clan rivali, i due protagonisti tessono un dialogo fatto prima di soli suoni e rumori: l'ossessivo ripetersi di una canzone, il rumore dei passi di lui, il picchiare delle mani di lei sulla porta metallica della stanza in cui è rinchiusa; e poi di contatti fisici: la forte stretta di lui sui polsi di lei, lo schiaffo di lei sulla guancia di lui, lo sfiorarsi delle gote mentre lui la aiuta a mangiare. E poi altri rumori ancora: il gracidare dei grilli, i clangori notturni di un'area industriale dismessa, il ronzare del condizionatore, due colpi di pistola nella notte.
Un film dalla trama semplice e parca di dialoghi, ma dalla fotografia d'effetto e dalle inquadrature ricercate. Azione e fissità si alternano, e i movimenti di macchina trasmettono allo spettatore il disorientamento provato dai protagonisti (ripetuti giri nella stanza accompagnano i cechi movimenti di lei, salite e discese lungo le scale seguono il punto di vista di lui).
Ma tra i sottili ossimori (il mortifero intrufolarsi del killer in stanze in cui riecheggiano le vivaci e romantiche parole di una canzone, un amore sbocciato tra le luride pareti di una fabbrica abbandonata nel cui perimetro la mafia locale seppellisce le proprie vittime) e una costante tensione di fondo (spezzata qua e là da pochi folkloristici inserti), la cinepresa indugia troppo su sudice pareti e pavimenti ingombri di arruginite ferraglie, sul profilo di lui investito da polverose folate di vento e sui sensuali riflessi che radenti fiotti di luce producono sulla silhouette di lei.
Per quanto riguarda il senso ultimo della storia, gli autori lasciano allo spettatore ampia libertà di scelta: l'amore può sbocciare anche tra nemici giurati? l'amore intenerisce anche le anime più dure? i miracoli possono accadere a chiunque e in qualsiasi momento o circostanza? O forse tutti questi e allo stesso tempo nessuno? Quale che sia il significato che vi scorgerete, l'opera prima di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza risulta coinvolgente e complessivamente piacevole, ma a tratti prolissa e manierata.

Simone Luperti, 35 anni, ingegnere elettronico.

Se fossi un boss mafioso e dovessi commissionare una produzione cinematografica, un film come Salvo sarebbe una buona scelta. Gli eroi principali, infatti, sono due membri della famiglia: sicario lui, "tesoriera" lei. Con i suoi occhi di ghiaccio, il protagonista è una sorta di Diabolik della mafia, con in più dei tratti religiosi: benedice le sue vittime prima di ucciderle, e il suo tocco arriva ad avere capacità taumaturgiche.
A parte queste premesse politicamente sospette e un po' improbabili, il film tiene ben desta l'attenzione, in particolare col lungo segmento iniziale. Lo sviluppo successivo mi è parso più convenzionale e prevedibile, anche se coerente. Qualche citazione qua e là, come le mani sul lavandino riprese da "Hunger" di Steve McQueen. Ma forse ad aver convinto la critica di Cannes è stata la bella fotografia sottotono di Daniele Ciprì.

Vincenzo Bonifaci, 35 anni, ingegnere informatico.

E' un film intenso, quasi muto, che si concentra più sulle immagine e le evocazioni che sui dialoghi e la costruzione di una storia (che è quasi sfumata). La presenza dei rumori (e non di una colonna sonora), la fotografia molto ricercata, la cura dei particolari e dei significati legati ad essi, hanno reso il film vivo quasi reale. Bravissimi i protagonisti che solo con sguardi e gesti hanno saputo rendere la dolcezza dell'amore ma anche la crudeltà e la crudezza della realtà. Unico neo: qualche minuto in meno non avrebbe guastato il tutto, avrebbe reso più fluido il racconto.

Chiara Di Carlo, 34 anni, ingegnere chimico.


Una serie di delicatezze disordinate all’interno di un panorama brullo e spinoso. La Sicilia è sempre stata terra fitta di enigmi, una fiera di genialità hanno contraddistinto un’isola divenuta crogiuolo di culture, lingue e sapori. Quel nome e cognome pronunciato in risposta ad una domanda, suona come la voce di un alunno che si presenta all’appello scolastico: “Come ti chiami?” “Salvo Mancuso”. E proprio lì si capisce che Salvo si è svegliato da un lungo sonno, con uno schiaffo tanto forte da fargli scoprire della grande alienazione che crea la mafia. Ma come si fa a dare uno schiaffo ad un sicario, armato di pistola e senza scrupoli? E’ pressoché impossibile, a patto che tu sia una ragazza cieca che, per devozione al suo ruolo di donna siciliana e per caparbietà di carattere anche tipicamente siciliano, vive la sua cecità con naturalezza e con superba fierezza. Non si può neanche sindacare sulla profondità di un amore così vissuto, perché l’esistenza è costellata di piccole solitudini in attesa di incontrarsi.
E’ un film da vedere, sebbene susciti in molti alcune incertezze di significato, coesione e veridicità nonché moralità. Ma il lato secondo me da privilegiare è proprio il contatto con la Sicilia: una terra in cui la mafia esiste quale sottofondo musicale e che impercettibilmente fa parte della vita di tutti. E così si insinua nello spettatore con la stessa normalità con cui risiede nel popolo siciliano, quale sottofondo da accettare e cui bisogna sottostare quale regola di base. Poi viene lo schiaffo, il contatto con la vita tangibile: Salvo si sveglia dalla sua cecità, dall’impossibilità di vedere che nella vita c’è una vocazione diversa da quella cui lui era asservito. Siamo affascinati dalla sua crudezza, dal suo carattere rude ma ricco di gentilezza verso quello schiaffo di donna che lo ha risvegliato. I dialoghi sono assenti ma non per questo non esistono comunicazioni sotterranee, tipiche di un gergo da interpretare. Rita beve dell’acqua e improvvisamente in Salvo si risveglia una sete vorace. Le mani della protagonista (unico mezzo di contatto con lo spazio nel momento della cecità), si intervallano a meditazioni sulle mani di Salvo. Ad una prima fase caratterizzata da buio e giochi di luci ed ombre, si sussegue un grande brano ricco di luce abbagliante e accecante che si riverbera nella campagna secca e arida di una Sicilia che non perdona.
Il fatto è proprio questo, che la storia non pretende di essere una storia universale o unanimemente accettabile, ma un pezzo staccato alla vita. Una probabilità di amore discutibile, un frammento che si è staccato, si è mostrato e poi è scomparso di nuovo, sfumando, al pari di quei corpi uccisi dalla mafia che l’aridità di una terra infuocata e il vento del Mediterraneo hanno restituito sotto forma di polvere all’aria.


Miriam Di Carlo

mercoledì 26 giugno 2013

F35, questi sconosciuti...

Mettiamo in chiaro una cosa: gli F35 sono strumenti di guerra, punto. Al contrario di quello che asserisce quel genio incompreso di Boccia non vanno bene per spegnere incendi, per salvare vite umane, non sono elicotteri e non verranno usati per la parata del 2 giugno, il loro utilizzo è strettamente collegato ad attività militari in territorio straniero (speriamo). E al parlamentare PD, scopertosi esperto di tecnologia militare, oggi tenta di venire in soccorso il Tg1, con un servizio... beh da Tg1. Un servizio dove si enunciano le innumerevoli innovazioni tecnologiche di questi velivoli, dove si dice chiaramente che non hanno alcun problema strutturale e di portanza, dove si intervistano addirittura sedicenti piloti americani impegnati a tesserne le lodi.. piloti che per quanto mi riguarda potevano essere anche comparse assoldate per questa pagliacciata, tanto è grottesca la cosa in un periodo di crisi così nero, tanto è inutile e fuori luogo (proprio nei giorni in cui si vota la mozione SEL-M5S a riguardo) il servizio del suddetto TG. Ovviamente si fà riferimento anche agli ambiti occupazionali che l'acquisto dei caccia porterebbe, paventando cifre da capogiro e un paio di lustri di manutenzione programmata. Ora, a meno che i vertici della RAI non considerino gli italiani una massa di idioti, è chiaro anche che tutta la manutenzione di cui gli aerei abbisognano avrà dei costi astronomici che vanno ad aggiungersi a quelli altrettanto cosmici per acquistarli. Parliamo in soldoni di decine di miliardi di euro che da qui a vent'anni potrebbero essere investiti per cambiarlo davvero il paese. Ma il punto è proprio l'occupazione e il presunto danno che la rinuncia agli F35 arrecherebbe al sistema economico italiano, peraltro già molto malandato anche a causa dell'impatto devastante (in termini di costi ed inutilità) delle missioni all'estero. La questione è a monte, almeno mezzo paese vuole che i giovani e i non giovani lavorino in ambiti che rispecchino l'essere del paese, dell'eccellenza tecnologica e scientifica, del Made in Italy (che oggi investitori molto lungimiranti vanno a produrre in Cina), dell'agricoltura, della salvaguardia del patrimonio naturale, archeologico e culturale, della sostenibilità ambientale e, soprattutto, del rispetto della costituzione. Eh sì, perché all'articolo 11 c'è sempre scritta quella cosetta riguardo la guerra e le controversie internazionali. Con questo principio, quello del lavoro a tutti i costi\facile da tramutare in consenso elettorale, ci siamo beccati, noi e soprattutto le generazioni che verranno, i vari Eternit, Porto Marghera, Petrolchimici vari (Gela in primis), Sarroch, ILVA, centrali nucleari che per un migliaio di anni c'hanno messo sul "groppone" scorie da gestire e via dicendo. Tutte cose delle quali è meglio non leggere per non rovinarsi giornate e\o settimane intere, tutte cose ormai diventate mostri mangia-vite umane (sia che si parli di salute che di lavoro tanto il risultato spesso è analogo), realtà e situazioni ingestibili delle quali nessuno riuscirà a venire a capo, questioni che hanno mietuto intere classi dirigenti senza lasciar intravedere luce alcuna. Quindi, prima di sbandierare l'utilità di cose che una utilità non ce l'hanno nemmeno a cercarla col lanternino, sarebbe bene che il caro Boccia e tutti quelli a lui allineati (e di questi tempi la lista è lunga e dolorosa) rivolgessero lo sguardo all'Italia, ai patrimoni da salvare e ai giovani laureati con le carte in regola per salvarli che oggi invece stanno nei Call-center, ai territori in dissesto idrogeologico e alle migliaia di ingegneri costretti ad emigrare per trovare una occupazione degna, agli ospedali diroccati da trasformare in centri sanitari e di ricerca all'avanguardia e ai tanti giovani ricercatori in fuga (o "cervelli", come più vi piace)... Forse allora una destinazioni più consona a tutti questi miliardi la si troverebbe...
Mauro Presciutti

giovedì 20 giugno 2013

La democrazia, tra ideologia e capitaneria. Non c'è da scandalizzarsi.

E’ inutile che ce la prendiamo tanto con le varie interpretazioni, a nostro avviso fuorvianti, intorno al concetto di democrazia. Lo dicevano già gli antichi pensatori greci che la “democrazia” quale forma di governo, cammina sul filo di un rasoio affilatissimo e tagliente. Essa, citando il grande Abbagnano (tra meno di un mese ricorrerebbe il suo compleanno: grazie ad un grande pensatore contemporaneo tramite cui ho avuto delle illuminazioni circa diversi filosofi), rischia di degenerare in tirannia per la progressiva acquisizione di consensi. In effetti all’interno di un gruppo coeso che si dica democratico e che si riconosca in una data ideologia (o presunta tale), tutti hanno diritto di parola e di replica ma inevitabilmente, vi sarà, come microcosmo dell’intera società, uno o più personaggi carismatici e dall’altra parte personalità meno forti destinate a seguire il carisma, a volte chiamato semplicemente megafono.
-         -  A proposito del M5S si ha come ideologia fondante il disagio dato dalla crisi e la diseguaglianza sociale derivante. Per comodità chiameremo tale collante “la pagnotta”. All’interno del Movimento della pagnotta esiste un leader carismatico? Si, poiché esso nasce non su base solamente e puramente ideologica ma grazie ad un secondo aggregante: Grillo. Inde per cui non è democratico ma degenera inevitabilmente verso la tirannia. È un percorso che i filosofi antichi già avevano rilevato: quindi è inutile ci si scandalizzi. Interessante a tal proposito è l’interpretazione data da Di Pietro durante “Un giorno da pecora” su Radio2[1]. O meglio CREDO di aver così capito le parole di Di Pietro perché trovo non poche difficoltà interpretative nell’idioma scelto da Tonino. A proposito dell’espulsione della Gambaro, Di Pietro appare conforme con il pensiero del grillino “puro” dicendo che (parafraso), se sei stato votato dagli elettori per stare da “quella parte”, devi mantenere la tua promessa elettorale e stare da “quella parte”. Ora, Di Pietro non me ne voglia, ma il fatto è che il M5S non è una parte politica perché non ha un’ideologia precisa entro cui riconoscersi. E’ il Movimento della protesta e ha protestato. Non ha trovato spazio per costruire, per volontà sua propria o per colpa altrui: le retrospettive storiche lasciamole ai nostri figli. Quindi la “parte” da interpretare (tolta la pagnotta e la protesta) rimane Grillo. Se rimane Grillo ecco la minaccia della tirannia e stiamo in un corto circuito in cui pian piano le varie resistenze elettriche stanno lanciando segnali di tilt.
-         - A proposito del PdL. Il PdL è un partito nato all’interno del gioco democratico e che prende le redini dell’eredità segnata dalla destra. In maniera stilizzatissima e stereotipata (non me ne vogliate) rappresenta alcuni interessi, ha una sua ideologia (condivisibile o meno) e nella storia ha contribuito a far ricredere la sinistra su certe fondamentali questioni,soprattutto in campo economico in uno scambio dialettico che prevede un riflesso nell’economia contemporanea: commistione di privato e pubblico necessaria per il concetto di lassez-faire, lassez-aller del liberismo economico. All’interno del partito si è delineato un leader carismatico, tal Belusconi. Ora, che sia carismatico è noto a tutti: tanto carismatico da stagliarsi quale punto di riferimento del partito se non il partito stesso. Dopo i recenti sviluppi giudiziari come si comporteranno i suoi discepoli? Seguiranno la debole ideologia o il leader? Se dovessero scegliere la prima strada, il Governo Letta è salvo, e per le prossime elezioni ci sarebbe la speranza che qualcuno rifondi una destra credibile che aiuti il rapporto dialettico tra destra e sinistra nell’ottica di una progressione comunitaria. Ma anche lì troppe personalità pigre hanno circondato il leader, che con la sua fama il suo successo ha creato l’assoggettamento totale a sé: se non lo segui non hai la speranza di fare niente nella vita[2]. Se gli vai contro poi stai fuori completamente. Se i discepoli, in seconda analisi dovessero seguire il leader, ovvero per dirla in soldoni, se dovessero far saltare il banco, allora Berlusconi sarebbe ancora salvo per l’ennesima volta, le destra, morto B. morirebbe con lui ad Arcore e non si riconoscerebbe più in nulla, ma prima ci si dovrebbe di nuovo interrogare sul problema martellante dei tre poteri divisi: esecutivo, legislativo e giudiziario che lasciamo alla coscienza di Silvio e a quanti dicono, con candore da schiaffi, che i magistrati di Tangentopoli fecero male a disabilitare politicamente alcune personalità corrotte di allora[3].

Infine cito una frase di Corrado Augias il quale ha giustamente affermato “la storia non ha un andamento uniforme, ma a fisarmonica: dei periodi più dilatati si intervallano a momenti più densi di eventi storici forti”.
Miriam Di Carlo





[1] Che suggerisco caldamente anche per la presenza del gruppo delle Ebernies, autrici dell’intervista cantata: per riderci su e ironizzare…fa sempre bene invece di piegarci come il solito Sisifo italico sul peso schiacciante della nostra presunta cultura italiana.
[2] C’è anche da dire che la destra, con la sua ideologia basata sull’individuale, si presta molto all’imposizione di una personalità più forte.
[3] Che poi per dirla tutta, non disabilitarono proprio per niente un’intera classe politica che per la maggior parte fu riabilitata dal decreto colpo di spugna Conso. Fu stigmatizzata la figura di Craxi. 

martedì 18 giugno 2013

Viaggio della speranza...senza alcuna speranza di Mauro Presciutti.


Da molto tempo ormai parlare d'Europa si riduce a indici, punti percentuali, aste di titoli pluriennali, dati quasi mai corrispondenti alla qualità della vita reale. Si pensa anche all'unione, giustamente, come a quel mostro che impone il rigore e l'austerity e che ha ridotto praticamente in mutande svariati popoli, compreso il nostro. Ci si è dimenticati, evidentemente anche a Bruxelles, che l'Europa ha dei confini, alcuni dei quali talmente critici che si preferisce far finta che non esistano, lasciando la palla a chi geograficamente si trova da quelle parti. Il "confine" in questione è quello sud, il tema sono le salme dei disperati che giacciono in fondo al mare. E non sono sette, dieci, cento, sono migliaia quelli che ogni anno perdono la vita nel viaggio più assurdo del mondo, quello che va dall'inferno del mondo, Somalia in primis, fino a quel continente che per rispettare indici e rating ha ridotto i suoi popoli in mutande, per l'estrema gioia degli speculatori. E' difficile capire cosa possa indurre un essere umano ad attraversare il deserto a piedi o con mezzi di fortuna, ad arrivare ai presidi italo-libici (alias campi di concentramento) fortemente voluti da alcuni nostri lungimiranti ministri del passato, dove le donne vengono stuprate, i bambini venduti, gli uomini pestati e lasciati a morire sotto al sole. Passano il livello solo quelli che si trovano in tasca quei quattro o cinquemila dollari necessari per corrompere l'ufficiale di turno. Da qui si accede alla prova finale, come in un improbabile edizione di "Giochi senza frontiere" degli orrori, la traversata. Fatta su imbarcazioni di fortuna e gommoni che accolgono decine di volte il numero massimo di persone che possono trasportare, è spesso il punto di non ritorno per chi fugge dalla disperazione. Donne incinte, bambini, anziani, ragazzi, ragazze, sfuggiti ai gulag del deserto e destinati ad essere inghiottiti dal mare, salvo alcuni casi fortunati. Eh si, perché nessuno sa quanta gente muoia in quel canale maledetto, gente che sfugge alla guerra, alla fame, alle persecuzioni e alle torture, gente che cerca un futuro migliore e che invece trova la morte al culmine di un percorso infernale, dopo essere sfuggita ai fantasmi creati dalla Cooperazione italo-libica, dalla Bossi-Fini ed altre atrocità per le quali, speriamo, un giorno qualcuno pagherà. Chi si salva è per il gran cuore degli italiani e di pochi altri, gente che chiacchiera, dice male, si lamenta, ma che alla comparsa di un barcone di disperati non si fa guardare dietro da nessuno, sale sul peschereccio, sulla motovedetta o quello che è e va a salvarli da morte sicura. Nessuno escluso, finanzieri, pescatori, uomini delle capitanerie di porto, nessuno. L'umanità infinita del popolo italiano è stata gradualmente oscurata da personaggi intolleranti che hanno potuto dare libero sfogo della loro ottusità in questi venti e più anni terribili ma, come già detto, è infinita e le immagini dei telegiornali di questi giorni, dei poveretti soccorsi in mare, della bambina nata sul barcone lo dimostrano, senza se e senza ma. E' assurdo e inspiegabile che praticamente solo l'Italia si occupi delle tragedie del mare, facendo quel che può ma rimanendo spesso impotente di fronte a catastrofi umanitarie delle quali nessun altro si occupa. Non ci sarà Europa fino a che l'Europa stessa non si prenderà cura degli ultimi...
Mauro Presciutti

mercoledì 12 giugno 2013

LA PRAGMATICITÀ DI UN “DAJE” di Riccardo Venturi.


Roma, 11 giugno 2013  
                                                                                                                                                                                                                          Col senno di poi, che ci rende tutti terribilmente risaputi e saccentucci mi sono fatto (in realtà da qualche settimana) una mia personale idea del successo, e poi della vittoria di Ignazio Marino, un chirurgo di fama internazionale, ma, ahilui, non particolarmente dotato di presenza fisica, magniloquenza oratoria e ironia brillante. Un uomo banalmente comune, che mi  piace ritenere (forse anche a ragione, visto che ha voluto presentarsi con una certa distanza dal PD, e senza il paracadute del doppio incarico senatoriale) intelligente ed onesto.
                                                                                                                                                                                                                                            Ma cosa gli ha portato la vittoria? Di certo non è stato sufficiente demonizzare (la innegabilmente pessima) gestione di Giovanni Alemanno (al di là di considerazioni ideologiche ed ideali, Roma è tutta una buca; non è una città sicura; i mezzi pubblici sono inadeguati; il traffico permane; lo sgombro dei campi rom ha riversato sotto i ponti e per tutta la città famiglie ancora più nel disagio, con conseguente ulteriore nostro disagio; il nepotismo e il clientelismo l’hanno fatta da padrone; le inefficienze e le risorse non stanziate, o peggio, sprecate, sono state una costante; vi è stato un incremento del debito cittadino, che è vero che cresce dagli anni ’80, ma è anche vero che è aumentato considerevolmente in questi ultimi cinque anni; e un trionfo della speculazione edilizia).
Cosa è stato quel più che deve solo a se stesso e alla sua squadra, perché per vincere, non ci si basta da soli. Forse quell’essere stato in grado di concepire, e spiegare con la semplicità di chi sa come poter realizzare il suo progetto, quasi disarmante, di una città a misura di bambino, più verde, più umana, schierandosi da una parte in modo netto, non ponendo il solito “e…e”, che per non stare fra bianco o nero si pone nel  grigio più immobilista, ma obbligando alla scelta, “o, oppure”.
Non si sono fatte promesse fantasiose o stupefacenti, demagogiche, si è puntato al realizzabile. Perché Marino, con le sue carenze di carisma, per vincere ha potuto puntare solo una cosa concreta: è un uomo del ciò che può essere fatto, non ha altre barriere dietro cui ripararsi, o fa o perde. Concezione comunitaria della città, del noi tutti, contrapposto a quell’individualismo che porta divisione, al benessere proprio contro quello di altri. Un candidato anomalo, che ha dovuto il suo  successo non di certo all’appoggio della dirigenza nazionale del PD, in piena tempesta peraltro. Dirigenza che ha saputo sfidare, perché, pur cattolico, è un uomo sinceramente di sinistra, che si è distinto per le sue iniziative a favore del testamento biologico ed altri campi di etica medica, che ha detto di no al governo Letta e tue le sue pericolose anomalie, che ha puntato all’alleanza con SEL.
Nella campagna elettorale, lui e la sua squadra hanno saputo operare bene nei vari campi (forse un po’ meno a livello televisivo, ma per sua fortuna gli sfidanti non sono riusciti a fare di meglio), da quello digitale, anche dei social network, a quelli più tradizionali (come comizi e manifesti elettorali, che raramente ho visto attaccati in posti non consoni o al di là delle regole), ed hanno potuto godere dell’appoggio di personalità popolari come quella di Nicola Zingaretti. Un viaggiare incessante per la città a farsi conoscere, a farsi mostrare ciò che non va, a sostenere i candidati a presidente di municipio; l’umiltà di stare ad ascoltare il cittadino che gli stava davanti (il che posso confermarlo di persona, visto che ne ho avuto la possibilità diretta); quel suo parlare sempre chiaro e con tono cortese; il presentarsi in un modo diverso da quello di tante persone di sinistra, dotate di quell’aria odiosa da intellettualino so-tutto-io, un esempio è stato quel “daje”, sbeffeggiato da qualcuno come ridicolo, ma che in sé contiene tutto il propositivo del voler fare, la pragmaticità, che ha già riscontro prima del suo stanziamento fisico in Campidoglio, con la riduzione del numero di assessori da 60 a 48.  


Infine, Marino non è stato  un candidato imposto dall’alto, è il candidato che le primarie e i loro elettori hanno voluto, godeva di legittimità da subito, e se non dovesse essere piaciuto a così tanti astenuti, be’, peggio per loro, perché sono stati così pigri da non cercare neanche di trovarsi di meglio (lo dico da scrutatore, rammentando ancora con orrore la sagra del grottesco derivante dal quella tovaglia azzurra di scheda elettorale da un metro e diciassette, con tutti i suoi 19 candidati).                                                                            Quindi, signor Marino, anche per coloro che non l’hanno sostenuta, per tutti noi romani, ci riporti in una capitale europea, e daje.                                    
Riccardo Venturi

sabato 1 giugno 2013

Ma che senso ha? di Vincenzo Quagliarella

Se spulciate un po’ tra i tormentoni giornalieri di facebook potrete facilmente imbattervi in un sondaggio che, tra le sue opzioni di scelta, presenta: "pratichi anche tu lo sport nazionale: criticare Grillo?" Ecco, lungi da noi voler risultare i Savonarola di turno, ma una riflessione sui fatti va fatta, se ne faccia una ragione l'autore del sondaggio.

Grillo giovedì ha risposto a Stefano Rodotà, il suo (tanto sbandierato) candidato alla Presidenza della Repubblica, che due giorni fa sul Corriere aveva contraddetto il leader del #M5s. Come un politico consumato, il comico genovese aveva dato la colpa dello scarso successo elettorale a qualcun'altro (gli elettori), pienamente in coerenza con la italica tradizione di scaricate sempre le responsabilità. In fondo qualcosa dei vecchi partiti i grillini l'hanno mutuato: se le elezioni vanno male la colpa non è loro ma dei cittadini che non hanno capito.

Ad ogni modo, finché Grillo utilizza la canonica grammatica politica (anche se enfatizzata dai suoi toni apocalittici) non c'è nulla di strano (diciamo). Di più: finché il #M5s, come avvenuto in questi mesi,  ha tenuto una linea politica rigida, disprezzando tutto e tutti, rifiutando ogni forma di compromesso, nessuno ha potuto obiettare; è una scelta, magari discutibile, ma legittima.
Tuttavia, quando si arriva ad offendere velatamente il proprio candidato al Quirinale (dicendo ottuagenario si capisce che si trattiene ma sottintende "rimbambito", e a poco valgono precisazioni in merito) cosa si vuole comunicare? Questa uscita piccata che senso ha?
Grillo, con una punta di apparente rispetto, fa sapere all'ottuagenario che, senza di lui, sarebbe potuto tranquillamente rimanere nel mausoleo della sinistra italiana. Quindi, se i giornali tornano ad intervistarlo, è merito del Movimento. Figuriamoci se uno che dovrebbe essere riconoscente può permettersi di contraddire il gran capo.

Allora ci chiediamo: il rifiuto di ogni critica che senso ha? Che senso ha prendersela con i giornalisti di Report e la Gabanelli, altra candidata del #M5s al Quirinale, per aver sollevato interrogativi sui proventi del blog?
Ma davvero Grillo (e i suoi ortodossi) credono di essere al di sopra di ogni giudizio?  Essere estranei al vecchio circuito di gestione del potere (per quanto corrotto esso sia) non conferisce automaticamente un’investitura divina, di santità immacolata. Di politici che affermano di essere in odore di santità ce ne sono già in abbondanza.

Si può essere d'accordo o meno con l’impronta del Movimento, ma questa linea non giova a nessuno: non serve agli italiani, perché la protesta “a prescindere” non serve a  "controllare" l'attività del governo, ruolo che in democrazia spetta all'opposizione; né serve a sconfiggere gli avversari politici, perché si perde credibilità, finendo per criticare gli stessi che poi, alle elezioni, dovrebbero venire a votarti.

In un servizio del 1 marzo, Paolo Pagliaro descriveva il programma del M5s “per un quarto dadaista, per un quarto concretamente riformista, per un quarto politicamente impegnativo e per un quarto ispirato a un diffuso bisogno di pulizia e moralità.”

http://www.youtube.com/watch?v=siGYAmdxHtA

Mantenendo una ottusa linea di non comunicabilità con le altre forze politiche e con i media tradizionali, questo programma è destinato a diventare per quattro quarti inutile.
Vincenzo Quagliarella

Ps. I mal di pancia di questi mesi è la batosta elettorale di domenica hanno già avuto i loro effetti: cominciano a vedersi i primi grillini in tv (e, udite udite, riescono pure a ben figurare).

http://www.youtube.com/watch?v=ZYwTZbthUsA

min. 10:40

giovedì 30 maggio 2013

Web o non Web? Rodotà e Settis parlano di internet...e non solo.


I miei giornalai di fiducia sono tutti molto simili: hanno pochi capelli e bianchi ma soprattutto indossano adorabili occhialetti da presbiti calati sul naso. Saluto Vittorio il meccanico e poi Natale il suo aiutante, Tonino il parrucchiere e il barista senza-nome, la cinesina che ha appena partorito una meravigliosa bambina e infine arrivo al giornalaio. Oggi davanti all’edicola c’è un signore che interviene subito dopo la mia richiesta “La Repubblica” e mi dice “La Prima, la Seconda o addirittura la Terza?”.

Eh già perché effettivamente per gli storici futuri questo periodo politico apparirà come un nuovo capitolo della Storia Italiana contemporanea ed una delle molteplici cause se non la preponderante risulta essere a mio avviso l’evoluzione tecnologica. L’umanità ho progredito e non è indifferente che la crisi si faccia sentire in tutti i consumi, persino quelli di prima necessità ma che non riesca ad intaccare la tecnologia e in particolare la nanotecnologia.

Ha affrontato l’interrogativo che pone il web, Stefano Rodotà su un articolo de “La Repubblica” di oggi dal titolo “La democrazia del web è vera democrazia?” che consiglio vivamente di leggere perché apre a nuovi spunti di analisi su un processo sfaccettato e multiforme. L’imbarazzo davanti a questo potere comunicativo e la paura se non la diffidenza nella gestione della rete già venne palesata da Benedetto XIV: mentre in alcuni movimenti della Chiesa si diceva che il web fosse strumento perverso ed alienante se non demoniaco, intanto Benedetto XVI apriva il suo account twitter per comunicare. Come tutte le cose va trovata la giusta modalità di applicazione e la possibilità di trarne frutti.
A livello sociale e comunicativo è indubbio che il web mescoli una buona dose di alienazione data da rapporti virtuali e quindi mai immediati e concreti (dando spesso l’illusione di non essere soli) a grandi scambi e dibattiti su tematiche e concetti che alimentano lo scambio più mentale che fisico. All’interno del web però vige una qualche gerarchia e sebbene vi sia una falsa o illusoria possibilità di interagire direttamente con gli alti vertici, esso diventa veramente scambio e interazione nel momento in cui si crea una situazione intimistica e non di massa come invece può essere un blog molto frequentato o twitter: infatti le mille e mille voci, proprio per la grandissima copiosità, si disperdono e alla fine vigono solo le forti personalità riconosciute tramite la loro indiscussa notorietà. Ma il web porta veramente con sé una grande rivoluzione data proprio dal fatto che non è un mezzo passivo, che viene subìto come una tv o un giornale ma dà maggiore possibilità di scelta, di selezione e di interazione che a volte può risultare efficace, magari grazie a una buona dose di fortuna ma anche di talento.
Comunque sia, Rodotà affronta l’argomento dal punto di vista politico e non strettamente comunicativo dimostrando ancora una volta grande lucidità, adattamento ai tempi e spirito critico.
Così come un’altra grandissima personalità che consiglio a tutti di approfondire perché merita: Salvatore Settis. Questo signore ha un Curriculum da urlo ma sono sicura che, come tutti i grandi colti potrebbe tranquillamente dire “So di non sapere”. Ha stilato ben 15 tesi e oggi presenterà al Teatro Piccolo Eliseo un evento con Civati e Barca. Riporto le sue tesi che danno una descrizione efficace e quanto mai valida sulla situazione che stiamo vivendo:


SETTIS - LA CULTURA SCENDE IN CAMPO. Quindici tesi sull’Italia 
di Salvatore Settis
LEFT, 25 MAGGIO 2013

1. La crisi della democrazia rappresentativa, presente ovunque, è particolarmente grave in Italia, a causa di due peculiarità del suo sistema politico: la legittimazione di un leader (Berlusconi) che non avrebbe titolo ad esser tale sia per i conflitti di interesse che per i reati comuni di cui è accusato, e una legge elettorale (il Porcellum) iniqua e anticostituzionale.

2. Un governo di “larghe intese”, che capovolge il responso delle urne, aggrava ulteriormente questa crisi, inseguendo l’impossibile modello di una democrazia senza popolo.

3. La natura estrema di questa crisi non colloca l’Italia fuori dal contesto mondiale. Al contrario, ne fa un caso-limite (per ciò stesso esemplare) di crisi della democrazia. Quello che accadrà in Italia (la vittoria della casta politica contro l’elettorato, o la riscossa dei cittadini) è perciò di grande rilevanza nel quadro globale. Grande è la nostra responsabilità.

4. Ingranaggio-chiave della crisi della democrazia è la dominanza dei mercati, cioè di persone, gruppi di interesse, lobbies bancarie e finanziarie che determinano il corso dell’economia. Queste oligarchie, in quanto sfuggono ad ogni controllo democratico, sono la vera e sola “antipolitica”. L'Europa si è ridotta ad essere il territorio di caccia di queste oligarchie e tecnocrazie, e le scelte politiche italiane viaggiano con questo «pilota automatico», secondo la frase di Mario Draghi. Su questa tendenza si sono appiattite in Italia tanto la destra quanto la “sinistra”, che ha con ciò rinunciato alla propria missione storica di difensore dei diritti dei cittadini, nascondendosi dietro un passivo “ce lo chiede l’Europa”.

5. La dominanza dei mercati, con la complicità della politica, genera (in Italia come altrove) un’ “austerità” che non crea ricchezza, ma la concentra nelle mani di pochi; pone il lavoro e la dignità della persona al servizio del mercato; mortifica libertà e uguaglianza comprimendo la spesa e i servizi sociali; innesca disoccupazione, disagio sociale, emarginazione, povertà.

6. L’anestesia che ci viene proposta come “pacificazione” o “responsabilità” consiste non solo nell’annientare le differenze fra “destra” e “sinistra”, ma anche nel chiudere gli occhi davanti ai problemi dei cittadini in ossequio alla dittatura dei mercati. Questa è stata la base e del “governo tecnico”, fase di rodaggio delle “larghe intese” oggi all’opera. Ma gli inviti all’amnesia vanno respinti perché sono contro gli interessi dei cittadini e contro la legalità costituzionale.

7. Il progetto di “democrazia senza popolo” sussiste perché l’antica funzione dei partiti come luogo di riflessione e di progettazione è morta. Quel che resta degli apparati di partito si è trasformato in un macchinario del consenso, fondato sulla perpetuazione dei meccanismi e delle caste del potere.

8. Una parte larghissima del Paese esprime una radicale opposizione a questo corso delle cose. Lo fa secondo modalità diverse, anzi divergenti: (a) la sfiducia nello Stato e il rifugio nell’astensionismo; (b) gesti individuali di protesta (fino al suicidio); (c) vasti movimenti che si trasformano in partito, come il M5S; (d) piccole associazioni di scopo, dichiaratamente non-partitiche, per l’ambiente, la salute, la giustizia, la democrazia. Queste ultime sono ormai alcune decine di migliaia, e coinvolgono non meno di 5-8 milion di cittadini. E’ a partire dall’autocoscienza collettiva generata da questo associazionismo diffuso (ma anche nei sindacati) che si può avviare la necessaria opera di restauro della democrazia.

9. Queste forme di opposizione “vedono” quel che sembra sfuggire a chi ci governa: il crescente baratro che si è aperto fra l’orizzonte delle nostre aspirazioni e dei nostri diritti e le pratiche di governo. Tuttavia, le associazioni e i movimenti, pur generando anticorpi spontanei alle pratiche antidemocratiche, stentano a trovare un denominatore comune, un manifesto che possa tradursi in azione politica.

10. Questo manifesto esiste già. E’ la Costituzione della Repubblica. Essa va studiata e rilanciata come la Carta dei diritti della persona e della collettività, che corrisponde in grandissima parte all’orizzonte delle aspirazioni e agli anticorpi spontanei della protesta.

11. Costituzione alla mano, l’universo dei movimenti e delle associazioni si può rivelare a un tempo stesso come il sintomo di un malessere e la cura della democrazia italiana. Sintomo, perché mette allo scoperto il carattere anti-democratico della politica “ufficiale”. Cura, perché i movimenti sono un serbatoio di idee, di elaborazioni, di progetti, di riflessioni, nell’esercizio del diritto di resistenza (che, secondo la Costituzione della Repubblica Partenopea del 1799, è «il baluardo di tutti i diritti»).

12. Questa forma di resistenza civile in nome del bene comune (che la Costituzione definisce “interesse della collettività” o “utilità sociale”) va intesa come adversary democracy : e cioè come l’esercizio pieno della cittadinanza, che non si esaurisce nel voto, ma si estende a una continua vigilanza critica e capacità propositiva. Essa non sostituisce la rappresentanza politica, ma si affianca ad essa, la controlla e la stimola. Non è contro la democrazia: al contrario, intende salvare la democrazia mediante la partecipazione dei cittadini, secondo il disegno della Costituzione.

13. La Costituzione non va intesa come una litania di articoli staccati, ma come una salda architettura di principi, coerente e inscindibile. L’adversary democracy va esercitata partendo simultaneamente dalla consapevolezza dei propri diritti e dalla difesa della legalità costituzionale. In nome della Costituzione vanno rimesse in onore le vittime sacrificali della presente dittatura dei mercati: le regole della politica e i pilastri del progresso sociale (politiche del lavoro, welfare state, diritto alla cultura e alla salute).

14. Nel crepuscolo della democrazia, è possibile, desiderabile, necessario ripartire dai movimenti per riformare i partiti e i sindacati, per ricreare la cultura politica che muove le regole.

15. Salvaguardare la Costituzione negando legittimità a qualsivoglia “Costituente” autonominatasi è precondizione necessaria del ritorno a una piena democrazia costituzionale. E’ urgente, piuttosto, l’alfabetizzazione costituzionale dei cittadini, simile a quella promossa dal Ministero per la Costituente (governi Parri e De Gasperi, 1945-46). Perché «ogni legislatore dev’esser guidato, sorretto, confortato dalla coscienza del suo popolo» (A.C. Jemolo).

P.S. Se il M5S avesse sfruttato anche altri mezzi di comunicazione che non fosse il semplice e solo web, come la tribuna televisiva avrebbe avuto maggiore visibilità la propria intrinseca innovazione  (nonché le proposte avanzate) e non sarebbe stato bollato come il Movimento dello scontrino. 
Miriam Di Carlo. 

sabato 25 maggio 2013

Meditazione su una crisi e una Speranza di Miriam Di Carlo.


Ho parlato con un uomo sconosciuto un giorno. A lungo. E la cosa mi capita spesso. Una volta sono riuscita persino a parlare del braccio di una leva (in gergo fisico-matematico) a proposito della migliore presa per non cadere in metro. Non chiedetemi il perché. Io parlo con tutti quanti abbiano predisposizione al parlare. Perché ogni incontro è un arricchimento: banalità ma vera. E’ una risorsa grandissima, una scoperta continua. Basta solo osservare attentamente, ascoltare aguzzando l’orecchio: il fascino di scoprire storie che camminano. Ognuno con il proprio bagaglio di credenze maturate durante la propria esistenza, e bagaglio di eventi passati che si tramutano in esperienza, e bagaglio di fatti futuri che sono speranze o preoccupazioni, e bagaglio di praticità fattuale. Ma ogni uomo è un evento in potenza, che non sa della grande forza che ha nel divenire atto, ogni singolo momento di vita.

  •           Un autista che mi disse che stiamo vivendo una terza guerra mondiale sotterranea ed economica.
  •           Un vecchio sindaco del PCI cha andava dai suoi parenti all’estero dopo essersi ritirato per le troppe delusioni politiche. Aveva da poco fatto l’impianto ai denti e non riusciva a sorridere per bene.
  •           Una ragazza innamorata che prendeva l’aereo per la prima volta dopo aver conseguito due lauree in tempi record.
  •           Una signora preoccupata per la cena della sera: sarebbero arrivati ospiti da Milano e voleva fare qualcosa di tipico ma non elaborato.
  •           Due ragazzi seminaristi terribilmente giovani ma bellissimi negli occhi, nelle parole, nei sorrisi.
  •           Una coppia di padovani ad aspettare la loro figlia entrata nell’Accademia Militare. Conservo ancora il biglietto della donna, confeziona confetture. Anche mia madre.
  •           Una signora che ho accompagnato fino al luogo d’incontro con il gruppo turistico per visitare i Musei Vaticani. Ho fatto ritardo all’università, ma ne è valsa la pena. Francese.
  •           Una ragazza di rientro dall’erasmus, con tanto pianto nel cuore e tanta paura di vivere.


Ma la visione più concreta di questa crisi necessaria e sufficiente per noi giovani è venuta dalle tre età della vita che incontrai una volta sulla metro B quale apparizione epifanica: tre uomini. Un ragazzino con il cellulare assuefatto dal videogioco o internet; un uomo di 40 anni ricurvo sulla sua valigetta, la fronte corrucciata ricurva anch’essa fino alle sopracciglia cadute pesantemente sugli occhi vacui; un signore anziano dalle mille pieghe e rientranze della pelle. Lo sguardo più lungo e intenso l’ho avuto con quell’uomo assai vecchio e bellissimo nella sua vecchiaia. Ho parlato a lungo con lui in quell’incrocio di sguardo, talmente tanto a lungo che mi sono sentita dentro il monito più dirompente della mia vita: non smettere di sperare nell’umanità. Sebbene tutto, abbandonando giudizi e pregiudizi perché io sono te, con tutti gli errori, con tutte le debolezze, le idiosincrasie, passeggeri su una vita dai dialoghi muti.

Miriam Di Carlo


P.S. Ho pensato sia doveroso segnalare alcune persone di prestigio che possono contribuire ad una visione  non pretenziosa della vita. Essi sono Luigi Ghirri e Gianni Celati. Riguardo il fotografo Luigi Ghirri è appena stata allestita fino a Ottobre una sua mostra fotografica: non credete che siano chissà quali foto introspettive o innovative. No, sono semplici brani di vita, senza ritocchi, senza nulla che possa far pensare ad una fotografia ma solo ad una frazione ottica che vediamo tutti i giorni. Mentre di Gianni Celati propongo questo magnifico filmato di "Mondonuovo", film-reportage uscito nel 2003. A forza di vedere film di Gianni Celati si finisce di vivere la vita con la sua voce accogliente nelle orecchie come se lui fosse un narratore dentro di te. http://193.204.255.75/elephant_castle/web/interviste/inimmaginabile-parte-1/21