mercoledì 12 giugno 2013

LA PRAGMATICITÀ DI UN “DAJE” di Riccardo Venturi.


Roma, 11 giugno 2013  
                                                                                                                                                                                                                          Col senno di poi, che ci rende tutti terribilmente risaputi e saccentucci mi sono fatto (in realtà da qualche settimana) una mia personale idea del successo, e poi della vittoria di Ignazio Marino, un chirurgo di fama internazionale, ma, ahilui, non particolarmente dotato di presenza fisica, magniloquenza oratoria e ironia brillante. Un uomo banalmente comune, che mi  piace ritenere (forse anche a ragione, visto che ha voluto presentarsi con una certa distanza dal PD, e senza il paracadute del doppio incarico senatoriale) intelligente ed onesto.
                                                                                                                                                                                                                                            Ma cosa gli ha portato la vittoria? Di certo non è stato sufficiente demonizzare (la innegabilmente pessima) gestione di Giovanni Alemanno (al di là di considerazioni ideologiche ed ideali, Roma è tutta una buca; non è una città sicura; i mezzi pubblici sono inadeguati; il traffico permane; lo sgombro dei campi rom ha riversato sotto i ponti e per tutta la città famiglie ancora più nel disagio, con conseguente ulteriore nostro disagio; il nepotismo e il clientelismo l’hanno fatta da padrone; le inefficienze e le risorse non stanziate, o peggio, sprecate, sono state una costante; vi è stato un incremento del debito cittadino, che è vero che cresce dagli anni ’80, ma è anche vero che è aumentato considerevolmente in questi ultimi cinque anni; e un trionfo della speculazione edilizia).
Cosa è stato quel più che deve solo a se stesso e alla sua squadra, perché per vincere, non ci si basta da soli. Forse quell’essere stato in grado di concepire, e spiegare con la semplicità di chi sa come poter realizzare il suo progetto, quasi disarmante, di una città a misura di bambino, più verde, più umana, schierandosi da una parte in modo netto, non ponendo il solito “e…e”, che per non stare fra bianco o nero si pone nel  grigio più immobilista, ma obbligando alla scelta, “o, oppure”.
Non si sono fatte promesse fantasiose o stupefacenti, demagogiche, si è puntato al realizzabile. Perché Marino, con le sue carenze di carisma, per vincere ha potuto puntare solo una cosa concreta: è un uomo del ciò che può essere fatto, non ha altre barriere dietro cui ripararsi, o fa o perde. Concezione comunitaria della città, del noi tutti, contrapposto a quell’individualismo che porta divisione, al benessere proprio contro quello di altri. Un candidato anomalo, che ha dovuto il suo  successo non di certo all’appoggio della dirigenza nazionale del PD, in piena tempesta peraltro. Dirigenza che ha saputo sfidare, perché, pur cattolico, è un uomo sinceramente di sinistra, che si è distinto per le sue iniziative a favore del testamento biologico ed altri campi di etica medica, che ha detto di no al governo Letta e tue le sue pericolose anomalie, che ha puntato all’alleanza con SEL.
Nella campagna elettorale, lui e la sua squadra hanno saputo operare bene nei vari campi (forse un po’ meno a livello televisivo, ma per sua fortuna gli sfidanti non sono riusciti a fare di meglio), da quello digitale, anche dei social network, a quelli più tradizionali (come comizi e manifesti elettorali, che raramente ho visto attaccati in posti non consoni o al di là delle regole), ed hanno potuto godere dell’appoggio di personalità popolari come quella di Nicola Zingaretti. Un viaggiare incessante per la città a farsi conoscere, a farsi mostrare ciò che non va, a sostenere i candidati a presidente di municipio; l’umiltà di stare ad ascoltare il cittadino che gli stava davanti (il che posso confermarlo di persona, visto che ne ho avuto la possibilità diretta); quel suo parlare sempre chiaro e con tono cortese; il presentarsi in un modo diverso da quello di tante persone di sinistra, dotate di quell’aria odiosa da intellettualino so-tutto-io, un esempio è stato quel “daje”, sbeffeggiato da qualcuno come ridicolo, ma che in sé contiene tutto il propositivo del voler fare, la pragmaticità, che ha già riscontro prima del suo stanziamento fisico in Campidoglio, con la riduzione del numero di assessori da 60 a 48.  


Infine, Marino non è stato  un candidato imposto dall’alto, è il candidato che le primarie e i loro elettori hanno voluto, godeva di legittimità da subito, e se non dovesse essere piaciuto a così tanti astenuti, be’, peggio per loro, perché sono stati così pigri da non cercare neanche di trovarsi di meglio (lo dico da scrutatore, rammentando ancora con orrore la sagra del grottesco derivante dal quella tovaglia azzurra di scheda elettorale da un metro e diciassette, con tutti i suoi 19 candidati).                                                                            Quindi, signor Marino, anche per coloro che non l’hanno sostenuta, per tutti noi romani, ci riporti in una capitale europea, e daje.                                    
Riccardo Venturi

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