martedì 11 giugno 2013

Social Darwin: chi non capisce l’ironia è destinato all’estinzione. Apologia de Il Gattopardo.



Non sono venuta qui per salire in cattedra come la professoressina di turno e cominciare a tenere una lezione di cultura e di vita: so di non sapere e di dover crescere. Come tutti, come anche un sessantenne, perché se si smette di crescere, si regredisce.

Vorrei esprimere solo un giudizio del tutto personale secondo un gusto maturato in questi pochi anni di vita. Credo, a mio avviso che “Il Gattopardo” sia una delle opere più belle, affascinanti, sensuali e profonde, ironiche e soprattutto rivoluzionarie della storia della letteratura italiana. Chi conosce le vicende letterarie dell’opera in questione, sa per certo che Il Gattopardo fu rifiutato ripetutamente da diversi editori e che alla fine, proprio la casa editrice che più si protendeva verso l’innovazione, che più sperimentava e che più rivoluzionava il gusto letterario del momento (La Feltrinelli) decise di pubblicarla, aprendo le porte ad un successo di fama internazionale. Fu pubblicato postumo, grazie alla mediazione di Elena Croce, figlia del noto Benedetto, che ne comprese subito l’enorme spessore ma soprattutto la densità tematica. Perché il Gattopardo va letto almeno tre o quattro volte per capire quanti strati di significati nasconda, attraverso ironie su ironie, simbolismi e un chiaro significato esistenziale individuale e storico. E’ un romanzo che non cela il senso di morte che intride la società e la storia, e proprio questo senso di morte fornisce il materiale per creare il nuovo : questo, Grillo non lo ha neanche lontanamente capito. Forse perché è comico e non ironico (soprattutto autoironico, vera piaga il non esserlo) né umoristico  il che significa che rimane ad un livello superficiale della realtà senza indagare i risvolti e le sfumature che si celano nella vita.

Riporto alcuni brani de il Gattopardo e sta a voi giudicare quanto grande sia questo romanzo. Attenzione non dico l’autore, perché fu la sua unica produzione (a parte alcuni racconti brevi di poco conto e una trattazione variegata saggistica), in cui però concentrò tutta la meditazione e tutta la cultura che un uomo, arrivato al far della vita ha maturato, considerando sempre che quel monito “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” in realtà significa che sebbene vi sia il cambiamento, c’è un dato incontrovertibile che rimane immutabile: la natura umana che rende inspiegabilmente similari le vicende umane storiche, in un ciclo continuo segnato dalla fame di potere dell’uomo. Anche Grillo ne è succube e ha raddoppiato e rafforzato la pregnanza di tale formula: per potere, per voglia di Vittoria e Vendetta è entrato nel Sistema, facendone parte egli stesso ma non cambiando niente nel suo immobilismo (ma questa frase, come tutte possono essere usate a uso e consumo di chiunque, e qui lo ammetto tranquillamente).

Giuseppe Tomasi di Lampedusa dà il meglio di sé nelle descrizioni disincantate rivelando significati simbolici segnati da eros e sensualità vitale, morte e putrescenza, forza e inerzia in un gioco mai sazio di nuove prospettive a mio avviso sublimi:

“amore, verginità, morte e durante quel brusio il salone rococò sembrava aver mutato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le ali iridiate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella biondona, svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva sempre.”

“ Ma il giardino, costretto e macerato fra quelle barriere, esalava profumi untuosi, carnali e lievemente putridi, come i liquami aromatici distillati dalle reliquie di certe sante; i garofanini sovrapponevano il loro odore pepato a quello oleoso delle magnolie che si appesantivano negli angoli; e di sotto si avvertiva anche il profumo della menta misto a quello infantile della gaggia ed a quello confetturiero della mortella; e da oltre il muro l’agrumeto faceva straripare il seno tre di alcova delle prime zagare. Era un giardino per ciechi e la vista costantemente era offesa”. [Di lì a poco troveranno in questo tripudio barocco che riprende la descrizione del salone interno, un cadavere di un soldato: la morte nascosta nella grande esaltazione inebriante della vita].

“La strada adesso era in leggera discesa e si vedeva Palermo vicinissima completamente al buio. Le sue case basse e serrate erano oppresse dalle smisurate moli dei conventi. Di questi ve ne erano dieci, tutti immani, spesso associati in gruppo di due o tre, conventi di uomini e di donne, conventi ricchi e conventi poveri, conventi nobili e conventi plebei, conventi di gesuiti, di carmelitani, di liguorini, di agostiniani… Smunte cupole dalle curve incerte simili a seni svuotati di latte si alzavano ancora più alte; ma erano essi, i conventi a conferire alla città la cupezza sua e il suo carattere, il suo decoro ed insieme il senso di morte che neppure la frenetica luce siciliana riusciva mai a disperdere.”

Queste sono solo tre descrizioni iniziali in cui la prosa è vibrante, concreta, sensuale e rapace, affonda lo sguardo nell’impasto della vita rendendola viva, concreta ma anche suadente e simbolica. Un romanzo incentrato sull'eros della vita e sul disfacimento della morte, sull’ubriacatura dei sensi e l’inerzia dell’impossibilità (rappresentata dal caldo che ovatta i movimenti): un romanzo unico e che scaturisce la voglia di scoprire il perché della Sicilia, terra isolata e isolana, crogiuolo di lingue e culture, appesantita dall’odore di zagare e dal sole cocente.

Ricordando che la vicenda è ambientata nel periodo risorgimentale (1861 ca.) la genialità dell’autore si coglie in questa frase in cui la storia, in maniera del tutto dadaista viene proiettata nel presente della scrittura (1954-57) per il riferimento cinematografico alla “Corazzata Potemkin” (1925) di Ėjzenštejn il quale però viene chiamato erroneamente Einstein:

“Dopo di che Angelica arrossì, retrocedette di mezzo passo: “Sono tanto, tanto felice…”. Si avvicinò di nuovo e, ritta sulla punta delle scarpine, gli sospirò all’orecchio: “Zione!”: felicissimo gag di regìa paragonabile in efficacia addirittura alla carrozzella da bambini di Einstein, e che, esplicito e segreto com’era, mandò in visibilio, il cuore semplice del Principe e lo aggiogò definitivamente alla bella figliola”.

Infine da ricordare quel meraviglioso film che ne fece Luchino Visconti, pedissequo nel ritrarre ambienti e atmosfere, psicologie e contenuti ma soprattutto geniale nell’immagine degli orinatoi affastellati nel salone a fine serata, dopo la festa e i saluti. Una meraviglia il Tancredi-Alain Delon il cui sguardo verde di gelosia quando Angelica balla con il Principe rimarrà sempre una pietra di smeraldo nella storia cinematografica, così come Burt Lancaster, preso direttamente dai circhi in cui faceva l’acrobata e infine quella creatura così intensa, mediterranea e carnale di Claudia Cardinale che con quel morso alle labbra nel primo fotogramma in cui compare e quella risata grottesca durante il pranzo in casa Salina, ha reso l’essenza dell’Angelica da rincorrere nei palazzi di  Donnafugata.
E le musiche di Nino Rota, che quell’anno aveva anche curato la colonna sonora di 8 e mezzo di Fellini, con la Fanfara all’arrivo del Principe a Donnafugata fino al Valzer inedito di Verdi composto per la contessa Maffei http://www.youtube.com/watch?NR=1&feature=fvwp&v=g8KyewGg_HY sono l’esempio di come il genio italiano si possa esprimere a livello letterario, cinematografico, musicale ma soprattutto concettuale in una sensualità conservativa che è alla base della vita.
Miriam Di Carlo





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