Non sono venuta qui per salire in cattedra come la
professoressina di turno e cominciare a tenere una lezione di cultura e di
vita: so di non sapere e di dover crescere. Come tutti, come anche un
sessantenne, perché se si smette di crescere, si regredisce.
Vorrei esprimere solo un giudizio del tutto personale
secondo un gusto maturato in questi pochi anni di vita. Credo, a mio avviso che
“Il Gattopardo” sia una delle opere più belle, affascinanti, sensuali e
profonde, ironiche e soprattutto rivoluzionarie della storia della letteratura
italiana. Chi conosce le vicende letterarie dell’opera in questione, sa per
certo che Il Gattopardo fu rifiutato ripetutamente da diversi editori e che
alla fine, proprio la casa editrice che più si protendeva verso l’innovazione,
che più sperimentava e che più rivoluzionava il gusto letterario del momento
(La Feltrinelli) decise di pubblicarla, aprendo le porte ad un successo di fama
internazionale. Fu pubblicato postumo, grazie alla mediazione di Elena Croce,
figlia del noto Benedetto, che ne comprese subito l’enorme spessore ma soprattutto
la densità tematica. Perché il Gattopardo va letto almeno tre o quattro volte
per capire quanti strati di significati nasconda, attraverso ironie su ironie,
simbolismi e un chiaro significato esistenziale individuale e storico. E’ un
romanzo che non cela il senso di morte che intride la società e la storia, e proprio questo senso di morte fornisce il materiale per creare il nuovo :
questo, Grillo non lo ha neanche lontanamente capito. Forse perché è comico e
non ironico (soprattutto autoironico, vera piaga il non esserlo) né umoristico il che significa che rimane ad un livello
superficiale della realtà senza indagare i risvolti e le sfumature che si
celano nella vita.
Riporto alcuni brani de il Gattopardo e sta a voi giudicare
quanto grande sia questo romanzo. Attenzione non dico l’autore, perché fu la
sua unica produzione (a parte alcuni racconti brevi di poco conto e una trattazione
variegata saggistica), in cui però concentrò tutta la meditazione e tutta la
cultura che un uomo, arrivato al far della vita ha maturato, considerando
sempre che quel monito “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto
cambi” in realtà significa che sebbene vi sia il cambiamento, c’è un dato
incontrovertibile che rimane immutabile: la natura umana che rende inspiegabilmente
similari le vicende umane storiche, in un ciclo continuo segnato dalla fame di
potere dell’uomo. Anche Grillo ne è succube e ha raddoppiato e rafforzato la
pregnanza di tale formula: per potere, per voglia di Vittoria e Vendetta è
entrato nel Sistema, facendone parte egli stesso ma non cambiando niente nel
suo immobilismo (ma questa frase, come tutte possono essere usate a uso e
consumo di chiunque, e qui lo ammetto tranquillamente).
Giuseppe Tomasi di Lampedusa dà il meglio di sé nelle
descrizioni disincantate rivelando significati simbolici segnati da eros e
sensualità vitale, morte e putrescenza, forza e inerzia in un gioco mai sazio
di nuove prospettive a mio avviso sublimi:
“amore, verginità, morte e durante quel brusio il salone
rococò sembrava aver mutato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le ali
iridiate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la Maddalena,
fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella biondona,
svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva sempre.”
“ Ma il giardino, costretto e macerato fra quelle barriere,
esalava profumi untuosi, carnali e lievemente putridi, come i liquami aromatici
distillati dalle reliquie di certe sante; i garofanini sovrapponevano il loro
odore pepato a quello oleoso delle magnolie che si appesantivano negli angoli;
e di sotto si avvertiva anche il profumo della menta misto a quello infantile
della gaggia ed a quello confetturiero della mortella; e da oltre il muro l’agrumeto
faceva straripare il seno tre di alcova delle prime zagare. Era un giardino per
ciechi e la vista costantemente era offesa”. [Di lì a poco troveranno in questo
tripudio barocco che riprende la descrizione del salone interno, un cadavere di
un soldato: la morte nascosta nella grande esaltazione inebriante della vita].
“La strada adesso era in leggera discesa e si vedeva Palermo
vicinissima completamente al buio. Le sue case basse e serrate erano oppresse
dalle smisurate moli dei conventi. Di questi ve ne erano dieci, tutti immani,
spesso associati in gruppo di due o tre, conventi di uomini e di donne,
conventi ricchi e conventi poveri, conventi nobili e conventi plebei, conventi di
gesuiti, di carmelitani, di liguorini, di agostiniani… Smunte cupole dalle curve
incerte simili a seni svuotati di latte si alzavano ancora più alte; ma erano
essi, i conventi a conferire alla città la cupezza sua e il suo carattere, il
suo decoro ed insieme il senso di morte che neppure la frenetica luce siciliana
riusciva mai a disperdere.”
Queste sono solo tre descrizioni iniziali in cui la prosa è
vibrante, concreta, sensuale e rapace, affonda lo sguardo nell’impasto della
vita rendendola viva, concreta ma anche suadente e simbolica. Un romanzo
incentrato sull'eros della vita e sul disfacimento della morte, sull’ubriacatura
dei sensi e l’inerzia dell’impossibilità (rappresentata dal caldo che ovatta i
movimenti): un romanzo unico e che scaturisce la voglia di scoprire il perché della
Sicilia, terra isolata e isolana, crogiuolo di lingue e culture, appesantita
dall’odore di zagare e dal sole cocente.
Ricordando che la vicenda è ambientata nel periodo
risorgimentale (1861 ca.) la genialità dell’autore si coglie in questa frase in
cui la storia, in maniera del tutto dadaista viene proiettata nel presente
della scrittura (1954-57) per il riferimento cinematografico alla “Corazzata Potemkin” (1925) di Ėjzenštejn il quale però viene chiamato erroneamente
Einstein:
“Dopo di che Angelica arrossì, retrocedette di mezzo passo: “Sono
tanto, tanto felice…”. Si avvicinò di nuovo e, ritta sulla punta delle
scarpine, gli sospirò all’orecchio: “Zione!”: felicissimo gag di regìa
paragonabile in efficacia addirittura alla carrozzella da bambini di Einstein,
e che, esplicito e segreto com’era, mandò in visibilio, il cuore semplice del
Principe e lo aggiogò definitivamente alla bella figliola”.
Infine da ricordare quel meraviglioso film che ne fece
Luchino Visconti, pedissequo nel ritrarre ambienti e atmosfere, psicologie e
contenuti ma soprattutto geniale nell’immagine degli orinatoi affastellati nel
salone a fine serata, dopo la festa e i saluti. Una meraviglia il Tancredi-Alain
Delon il cui sguardo verde di gelosia quando Angelica balla con il Principe
rimarrà sempre una pietra di smeraldo nella storia cinematografica, così come Burt
Lancaster, preso direttamente dai circhi in cui faceva l’acrobata e infine
quella creatura così intensa, mediterranea e carnale di Claudia Cardinale che
con quel morso alle labbra nel primo fotogramma in cui compare e quella risata
grottesca durante il pranzo in casa Salina, ha reso l’essenza dell’Angelica da
rincorrere nei palazzi di Donnafugata.
E le musiche di Nino Rota, che quell’anno aveva anche curato
la colonna sonora di 8 e mezzo di Fellini, con la Fanfara all’arrivo del
Principe a Donnafugata fino al Valzer inedito di Verdi composto per la contessa
Maffei http://www.youtube.com/watch?NR=1&feature=fvwp&v=g8KyewGg_HY sono l’esempio di come il genio italiano si possa esprimere a livello
letterario, cinematografico, musicale ma soprattutto concettuale in una
sensualità conservativa che è alla base della vita.
Miriam Di Carlo
Nessun commento:
Posta un commento