Questo post riporta alcune riflessioni a proposito di
“Salvo” un film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, cineasti emergenti che
hanno ricevuto riconoscimenti da parte della Semaine de la
critique di Cannes. Per fortuna è arrivato anche in Italia. E noi (un gruppo abbastanza
eterogeneo di amici) lo siamo andati a vedere dando i nostri pareri. Alla fine
avrete il mio commento...ma prima gustatevi le considerazioni di tre ingegneri, veri amanti del cinema.
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Vite al buio
(“Salvo” di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, Italia 2013)
Palermo. 5.30 del mattino. Salvo Mancuso, giovane
guardaspalle del “boss” di zona, si sveglia e si reca dal suo “assistito”. La
loro auto procede lentamente lungo le strade della città, quando i due si
accorgono di essere seguiti. Senza perdere la calma conducono i loro
inseguitori su un'isolata stradina di campagna e si fermano ad attenderli oltre
una curva. Salvo è bravo e svolge bene il suo “lavoro”: liquida presto gli
assalitori, insegue l'ultimo sopravvissuto ed estorce la preziosa delazione. Si
reca quindi a casa del mandante dell'agguato per consumare un'immediata
vendetta, ma un incontro inatteso lo “disarma”: nell'oscuro seminterrato la
sorella dell'uomo che è venuto ad uccidere conta banconote, probabilmente
frutto di attività malavitose.
Lo stereo a tutto volume riempie l'aria con le note di una
melensa canzoncina d'amore. Lui, non visto, la osserva; poi lei, forse intuendo
la presenza di qualcuno alle sue spalle, si alza in piedi, si volta e avanza di
qualche passo. Lui la vede avvicinarsi nella penombra, ma lei continua a non
vederlo, e non a causa dell'oscurità ma perché i suoi occhi sono incapaci di
vedere alcunché. Lui allora, per risparmiarle la vita, la rapisce.
In una rovente e assolata estate siciliana Salvo e Rita
vivono costantemente al buio: il primo si nasconde “come un topo”, la seconda
della luce non sa che farsene. Nel buio di una vecchia fabbrica abbandonata
intrecceranno le loro vite e in un'altrettanto buia notte tenteranno di
sfuggire al loro triste destino.
La quasi totalità della vicenda si svolge in ambienti foschi
e polverosi, in cui caravaggesche e quasi materiche lame di luce fendono
l'aria, evidenziando questo o quel dettaglio, ma senza mai concedere una chiara
visione della scena. E lo spettatore, novello Pollicino perso nelle oscurità
del bosco, non può far altro che seguire il percorso indicato da quei minimi
elementi che trapuntano il racconto filmico; anzi, che ne costituiscono al
tempo stesso l'essenza e la cifra estetica: una tendina illuminata in
controluce, una fotografia sul mobile del corridoio, le mani di lui sul bordo
del lavandino, le mani di lei che si muovono nell'aria, una tavola
apparecchiata per il pranzo, un bidone industriale di colore rosso.
Sotto la spessa coltre di una pervasiva oscurità e nell'impossibilità
di scambio verbale tra affiliati di clan rivali, i due protagonisti tessono un
dialogo fatto prima di soli suoni e rumori: l'ossessivo ripetersi di una
canzone, il rumore dei passi di lui, il picchiare delle mani di lei sulla porta
metallica della stanza in cui è rinchiusa; e poi di contatti fisici: la forte
stretta di lui sui polsi di lei, lo schiaffo di lei sulla guancia di lui, lo
sfiorarsi delle gote mentre lui la aiuta a mangiare. E poi altri rumori ancora:
il gracidare dei grilli, i clangori notturni di un'area industriale dismessa,
il ronzare del condizionatore, due colpi di pistola nella notte.
Un film dalla trama semplice e parca di dialoghi, ma dalla
fotografia d'effetto e dalle inquadrature ricercate. Azione e fissità si
alternano, e i movimenti di macchina trasmettono allo spettatore il
disorientamento provato dai protagonisti (ripetuti giri nella stanza
accompagnano i cechi movimenti di lei, salite e discese lungo le scale seguono
il punto di vista di lui).
Ma tra i sottili ossimori (il mortifero intrufolarsi del
killer in stanze in cui riecheggiano le vivaci e romantiche parole di una
canzone, un amore sbocciato tra le luride pareti di una fabbrica abbandonata
nel cui perimetro la mafia locale seppellisce le proprie vittime) e una costante
tensione di fondo (spezzata qua e là da pochi folkloristici inserti), la
cinepresa indugia troppo su sudice pareti e pavimenti ingombri di arruginite
ferraglie, sul profilo di lui investito da polverose folate di vento e sui
sensuali riflessi che radenti fiotti di luce producono sulla silhouette di lei.
Per quanto riguarda il senso ultimo della storia, gli autori
lasciano allo spettatore ampia libertà di scelta: l'amore può sbocciare anche
tra nemici giurati? l'amore intenerisce anche le anime più dure? i miracoli
possono accadere a chiunque e in qualsiasi momento o circostanza? O forse tutti
questi e allo stesso tempo nessuno? Quale che sia il significato che vi
scorgerete, l'opera prima di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza risulta
coinvolgente e complessivamente piacevole, ma a tratti prolissa e manierata.
Simone Luperti, 35
anni, ingegnere elettronico.
Se fossi un boss mafioso e dovessi commissionare una
produzione cinematografica, un film come Salvo sarebbe una buona scelta. Gli
eroi principali, infatti, sono due membri della famiglia: sicario lui,
"tesoriera" lei. Con i suoi occhi di ghiaccio, il protagonista è una
sorta di Diabolik della mafia, con in più dei tratti religiosi: benedice le sue
vittime prima di ucciderle, e il suo tocco arriva ad avere capacità
taumaturgiche.
A parte queste premesse politicamente sospette e un po'
improbabili, il film tiene ben desta l'attenzione, in particolare col lungo
segmento iniziale. Lo sviluppo successivo mi è parso più convenzionale e
prevedibile, anche se coerente. Qualche citazione qua e là, come le mani sul
lavandino riprese da "Hunger" di Steve McQueen. Ma forse ad aver
convinto la critica di Cannes è stata la bella fotografia sottotono di Daniele
Ciprì.
Vincenzo Bonifaci, 35
anni, ingegnere informatico.
E' un film intenso, quasi muto, che si concentra più sulle
immagine e le evocazioni che sui dialoghi e la costruzione di una storia (che è
quasi sfumata). La presenza dei rumori (e non di una colonna sonora), la
fotografia molto ricercata, la cura dei particolari e dei significati legati ad
essi, hanno reso il film vivo quasi reale. Bravissimi i protagonisti che solo
con sguardi e gesti hanno saputo rendere la dolcezza dell'amore ma anche la
crudeltà e la crudezza della realtà. Unico neo: qualche minuto in meno non
avrebbe guastato il tutto, avrebbe reso più fluido il racconto.
Chiara Di Carlo, 34
anni, ingegnere chimico.
Una serie di delicatezze disordinate all’interno di un
panorama brullo e spinoso. La Sicilia è sempre stata terra fitta di enigmi, una
fiera di genialità hanno contraddistinto un’isola divenuta crogiuolo di
culture, lingue e sapori. Quel nome e cognome pronunciato in risposta ad una
domanda, suona come la voce di un alunno che si presenta all’appello
scolastico: “Come ti chiami?” “Salvo Mancuso”. E proprio lì si capisce che
Salvo si è svegliato da un lungo sonno, con uno schiaffo tanto forte da fargli scoprire
della grande alienazione che crea la mafia. Ma come si fa a dare uno schiaffo
ad un sicario, armato di pistola e senza scrupoli? E’ pressoché impossibile, a
patto che tu sia una ragazza cieca che, per devozione al suo ruolo di donna
siciliana e per caparbietà di carattere anche tipicamente siciliano, vive la
sua cecità con naturalezza e con superba fierezza. Non si può neanche sindacare
sulla profondità di un amore così vissuto, perché l’esistenza è costellata di
piccole solitudini in attesa di incontrarsi.
E’ un film da vedere, sebbene susciti in molti alcune
incertezze di significato, coesione e veridicità nonché moralità. Ma il lato
secondo me da privilegiare è proprio il contatto con la Sicilia: una terra in
cui la mafia esiste quale sottofondo musicale e che impercettibilmente fa parte
della vita di tutti. E così si insinua nello spettatore con la stessa normalità
con cui risiede nel popolo siciliano, quale sottofondo da accettare e cui
bisogna sottostare quale regola di base. Poi viene lo schiaffo, il contatto con
la vita tangibile: Salvo si sveglia dalla sua cecità, dall’impossibilità di
vedere che nella vita c’è una vocazione diversa da quella cui lui era
asservito. Siamo affascinati dalla sua crudezza, dal suo carattere rude ma
ricco di gentilezza verso quello schiaffo di donna che lo ha risvegliato. I
dialoghi sono assenti ma non per questo non esistono comunicazioni sotterranee,
tipiche di un gergo da interpretare. Rita beve dell’acqua e improvvisamente in
Salvo si risveglia una sete vorace. Le mani della protagonista (unico mezzo di
contatto con lo spazio nel momento della cecità), si intervallano a meditazioni
sulle mani di Salvo. Ad una prima fase caratterizzata da buio e giochi di luci
ed ombre, si sussegue un grande brano ricco di luce abbagliante e accecante che
si riverbera nella campagna secca e arida di una Sicilia che non perdona.
Il fatto è proprio questo, che la storia non pretende di
essere una storia universale o unanimemente accettabile, ma un pezzo staccato
alla vita. Una probabilità di amore discutibile, un frammento che si è
staccato, si è mostrato e poi è scomparso di nuovo, sfumando, al pari di quei
corpi uccisi dalla mafia che l’aridità di una terra infuocata e il vento del
Mediterraneo hanno restituito sotto forma di polvere all’aria.
Miriam Di Carlo
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