Quasi tutti noi conosciamo, anche solo grazie a qualche occhiata fugace, il dipinto “Quarto Stato” di Giuseppe Pelizza da Volpedo. Il quadro rappresenta lo sciopero dei lavoratori, che, affaticati, con camice tirate su fino ai gomiti, imbracciando giacche sporche di sudore, camminano con fare volenteroso tra la polvere. Quest’opera rappresenta l’ascesa, che andava delineandosi nei primi dell’Ottocento, della “working class”, dei manovali, dei lavoratori, di quella parte di società che storicamente definiamo “Quarto Stato”. Il dipinto è un esempio lampante di protesta sociale, di rivoluzione culturale e materiale.
Tutte le rivoluzioni sono nate da proteste in strada, spesso lontane dai luoghi d’origine; sono sorte sul posto di lavoro, e sono state protratte col sudore per ottenere determinati diritti o per avanzare dissensi. Fino ad ora.
Col passare degli anni, e delle rivoluzioni aggiungerei, molte cose sono cambiate; ci siamo evoluti: gli ambienti lavorativi si sono trasformati da campi polverosi in scrivanie e sedie comode e confortevoli. La comunicazione, unita al dissenso, ha cominciato ad avvalersi del fantastico mondo dei computer e della rete globale. Mai invenzione è stata più dolce ed appropriata per il profondo amore che molti segretamente nutrono per la pigrizia. E così abbiamo cominciato a pensare che fosse inutile andare in un negozio per comprare un disco quando bastava cliccare un pulsante, e lo stesso è valso per un libro, un elettrodomestico, un vestito, una macchina, una casa, un chilo di pasta, una sedia. L’era di internet ora ha organizzato proteste, dissidi e rivoluzioni pigre.
Non più camminate in piazza, non più cortei, ma solo un amaro e frenetico colpo di tastiera, lanciato sul web ad agitare folle di internauti, che si dimenano dietro una scrivania. Vogliono fare la rivoluzione a colpi di 140 caratteri, vogliono dissentire, ma col dissenso due punto zero. Quel che non comprendono però è che il loro messaggio virtuale assume altri significati rispetto a quello originario, a volte pericolosi. Nella rete le parole assumono un peso specifico differente. Nell’indifferenza di un pc covano menti pigre, influenzabili e volubili, in cui rimbombano pensieri disordinati che nella vita reale si tramutano in comportamenti sociopatici, e spesso violenti.
Senza l’espressività dei volti degli interlocutori, senza il gesticolare del corpo dell’altro, senza il tono di una voce, il dibattito, così come il dissenso, assume toni ambigui, fortemente esposti al fraintendimento. Da tutto questo scaturisce un web pieno di pallottole virtuali vaganti, pieno di fango e frecce che non si sa bene chi debbano colpire; e quando queste vengono sparate fuori dallo schermo continuano a vagare all’impazzata e finiscono per centrare chiunque le si pari davanti.
Oggi assistiamo all’alba di una nuova classe sociale fatta di individui con teste di schermi e mani di pulsanti; schiere di internauti che si accorciano le camice fino al gomito e si siedono pigramente sulle loro poltrone, immersi in nuvole di odio che si propagano istantaneamente, con un tweet, da una mente all'altra.
L’irrealtà del web riesce a tirare fuori il peggio di alcune persone, ad ingigantire problemi banali e a sminuire quelli più seri; nei secoli passati il dissenso si alimentava dal dialogo con gli altri, su problemi reali e condivisi.
Oggi invece l'odio che riveste le problematiche sociali si alimenta nella solitudine dell'individuo, che perde spesso il contatto con la realtà. Quando insoddisfazione, rabbia e pigrizia su cui si adagiano gli internauti rompono l’illusione scenica del web, la rivoluzione due punto zero diviene nella realtà decadimento e autentico naufragio sociale. Riempie la società della solitudine degli internauti, spegne le discussioni e i dibattiti e apre la strada più semplice da seguire, quella della violenza.
Pasquale Barbato.
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