lunedì 3 giugno 2013

La Grande Bellezza di Sorrentino.

La Grande Bellezza.

“Bouvard e Pecuchet” è l’ultimo romanzo incompiuto di Flaubert. Durante la temperie romantica e poi naturalista, si era insinuata, in Francia una corrente estetizzante che Flaubert aveva colto in maniera del tutto trasversale capendo che la vita si ferma a una grado di separazione dalla verità: decise così di inserire due amici all’interno di un giardino squisitamente curato, contornato da oggetti dal gusto raffinato e ricercato in cui la loro passeggiata palinodicamente paripatetica serviva semplicemente per parlare del mondo “di triti fatti” e della loro volontà di dare un nome alle cose secondo un approccio estetizzante. Questo frammento è il succo della loro ricerca spasmodica verso le varie branche del sapere: anche loro dimostrano l’estrema vacuità su cui si basava l’allora borghesie benpensante. Parla di una frenesia eccitata verso il sapere visto nelle sue mille accezioni e poi il fallimento necessario che ne consegue.

D’altra parte Céline è un autore francese conosciuto per la sua verbigerazione schizoide alla Gadda, anche se precede di qualche anno Gadda. Celati tradusse questo splendido autore controcorrente francese cercando di immergersi all’interno del flusso della logorrea tipico dei manicomi.

Queste sono due delle molte citazioni che si colgono all’interno de “La Grande Bellezza” di Sorrentino, film che i posteri, ne sono certa, giudicheranno come l’espressione di una genialità un po’ incompresa dai contemporanei. Questo film è un film sul dramma dell’alienazione, un’alienazione che si sviluppa in ossimori sia a livello visivo che a livello musicale. Ma è anche il film del barocco antico e contemporaneo, del trompe d’oeil  Ma è anche il film del grottesco e del perturbante alla Freud. E’ semplicemente la storia di chi è alla ricerca: l’uomo. E per questo già si propone come storia universale, sebbene abbia un hinc (Roma) et nunc (i nostri giorni).
Alienazione è il modo in cui si vive costantemente: ci alieniamo con il lavoro, con la gratificazione per cui ci affanniamo e che assume i connotati di una lusinga che tocca la nostra intelligenza, la nostra morale e integrità (come nel caso dell’amica sbugiardata davanti a tutti sulla terrazza di Jep), la nostra bellezza fisica e di carisma. Nel momento della lusinga, si accende una scintilla di amore in noi che per sempre saremo destinati a rincorrere senza trovarne mai appieno soddisfazione e quindi supplendo con mille e mille altri palliativi che riempiono apparentemente ma svuotano completamente. E quell’alienazione dell’uomo si coglie nella vasca in cui nuota affannosamente un marito, nei festini orgiastici come nella domanda “Che fai stasera?” avvenuta dopo una rimiscenza proustiana, o come la ricetta di un coniglio davanti alla richiesta di una verità, o ancora come la struttura morale e moralistica che la società propone nelle norme comportamentali: il funerale del figlio di Viola è la vita come si vive con l’alienazione. E quel pianto di Gep appare quindi lo scatto verso la verità che racchiude tutto l’urlo dell’umanità disperata.
Ma questo film è tanto. E’ parallelismo continuo, è un doppio svenimento davanti a due bellezze diverse, è la ricerca di una povertà che Roma ha sepolto dentro di sè in maniera vorace e assai affabulatoria. E’ la voglia dell’uomo visionario, e consapevole di spogliarsi della struttura, di riuscire a togliere l’alienazione che Roma produce non solo a livello visivo (in questo caso anche assuefazione) ma anche a livello interiore, che invalida la capacità di toccare se stessi e le proprie emozioni con viva mano, magari soffrendone la bruttezza che si pensa vi sia (solo perché tal canone dettato da altra struttura).

Alla fine si esce pensando a niente ma consapevoli che Sorrentino ha visto qualcosa che ha prodotto in lui una grande tristezza: una vita non-vita fatta di solitudini incapaci di uscire dal proprio cerchio di morte e di toccare la vita nella vera essenza. Questo privilegio è dato ai veri visionari, che sanno ma tacciono. Insomma una grande Danza Macabra del nostro millennio che urla a gran voce: Vanitas Vanitatum. Vanitas di bellezza estatica, di denaro, di intelligenza, di carisma, di lusso e sesso, di struttura della società e di modalità di comportamento canonizzata, di tendenza, di trovata sempre del particolare per cercare di svegliare dall’intorpidimento dell’alienazione. Invano. 
Padre Pozzo"Trionfo", soffitto chiesa di Sant'Ignazio, Roma
Miriam Di Carlo

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