lunedì 17 giugno 2013

Luigi Ghirri: una passeggiata all'aria aperta immersa nella Babele del MaXXi.

Se hai la fortuna di andare a vedere il MaXXi a Roma, fallo con un amico surreale e con cui hai empatia umoristica.
Così io ho avuto questa fortuna: con l’amica di 5 anni universitari densi di surrealtà, sono andata a vedere la mostra di Luigi Ghirri al Maxxi, non avendo la benché minima di idea dell'esperienza paranormale avremmo affrontato di lì a poco.  
Anzitutto si entra all’interno del giardino del Maxxi e non si fa caso che è posta, proprio al centro, con nonchalance, senza alcuna utilità, una pompa di benzina vintage. Noi ce ne siamo accorte solamente all’uscita. Poi, se cerchi un museo in cui puoi anche parlare amabilmente, beh, questo NON è il Maxxi perché se non stai attento alle strade, ai tranelli spaziali e statuari, ti ritrovi in luoghi che sono non-luoghi e che l’ambiguità dell’arte contemporanea non fa capire se siano parti funzionali o parti artistiche. Del tipo, per parlare ci siamo trovate davanti ad una porta color ghiaccio con alcune scritte rosse di lato: ma è un’opera d’arte o la porta d’accesso? Nessuna delle due: era il retrobottega quindi siamo dovute tornare indietro ed entrare non mi ricordo da quale porta. Dopo aver fatto i biglietti per la mostra (12 euro biglietto intero, 8 euro ridotto) partiamo alla ricerca dei padiglioni. E la ricerca si fa più problematica del previsto. Dopo esserci trovate davanti un teatro vuoto rivolto verso un proiettore con su scritto FINE (in realtà un’istallazione), una serie di statue classiche lungo un corridoio, tutte uguali, che tenevano in mano dei televisori al plasma (opera a mio avviso geniale), dopo essere passati davanti ad una scritta al neon indecifrabile che ho deciso userò come testata del letto e aver sentito per un centinaio di volte una voce che urlava “esci dalla mia mente, vai via!”, abbiamo capito che era tempo di perdersi anziché cercare la mostra. Perdersi senza chiedersi assolutamente il significato di ciò che stessimo vedendo perché altrimenti uno ne esce pazzo. Il Maxxi va preso così, come se sfogliassi le pagine de "Il Venerdì" di Repubblica e trovassi tutte quelle pubblicità perturbanti in successione.
Ad un certo punto ci troviamo davanti ad una tenda bianca mentre la voce continuava ad urlare “esci dalla mia mente, vai via!”: apriamo e troviamo finalmente il mondo di Luigi Ghirri.
Per chi non lo sapesse Luigi Ghirri fu un fotografo che operò principalmente negli anni ’70/’80 e ha contribuito enormemente a formare un nuovo gusto fotografico svicolato dall’artificio troppo ricercato dei surrealisti e dadaisti. Per questo ebbe un’affinità elettiva con lo scrittore Gianni Celati, con il quale collaborò a numerosi progetti editoriali basati proprio sulla sinergia di narrazione e fotografia. La fotografia è un’arte particolare: appena nata ha contribuito a cambiare il concetto di arte pittorica. Infatti, la pittura perde il ruolo di arte mimetica (già con l’impressionismo), perde il suo scopo di dover ritrarre frammenti di realtà da immortalare e che altrimenti si perderebbero: ora vi è la fotografia che assurge a tale scopo.




Ma la fotografia di Ghirri non è né artificio alla Man Ray, né si presenta con chissà quale velleità artistica: la fotografia è semplice richiamo di atmosfera. Di sentimento provato già nella vita e ritrovato in quelle foto, riconoscibile perché magari, è proprio banale e semplice. E per questo poetico. Non vi è nessuno spazio per un perturbante freudiano, né per una impostazione a priori: la foto è brano di vita staccato. Tra le molte frasi geniali di Luigi Ghirri, sospese tra le varie foto vi è una citazione di Schopenhauer meravigliosa: “la vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro; leggerli in ordine è vivere, sfogliarli è sognare”. Così noi sogniamo il mondo di Ghirri, la sua vita vissuta in un continuo passaggio dal passato al futuro e viceversa, dal paesaggio interno a quello esterno, da un viaggio in Italia, ad un paese estero come New York o Versailles per poi tornare immediatamente a Rimini o Modena. Insomma viviamo una grande confluenza di vite disparate e sogniamo un’umanità disseminata in cui rivivere le nostre banali emozioni quotidiane. 


Ma è soprattutto in questo brano squisitamente personale che si coglie la vera filosofia sottesa a Luigi Ghirri: “ Per me il banale quotidiano è lo sguardo che non riesce a discernere, l’atteggiamento che accetta solamente il già avvenuto, il già codificato come verità, e kitsch non è l’oggetto rappresentato, ma il gesto che relega acriticamente un oggetto nel ghetto del non dignificante” e ancora “il mio non è mai un aggiungere, ma un togliere, sia dal punto di vista del contenuto  dell’inquadratura sia nel tentativo di arrivare ad una forma di comunicazione il più semplice possibile. Un dato che trovo straordinario in tutta la fotografia che mi interessa, è proprio questa semplicità di rappresentazione”. Si può ben capire, che in un’arte contemporanea basata sulla stranezza, sul perturbante e conturbante, sull’eclatante e il gesto difforme dalla regola della normalità, Ghirri e Celati si stagliano come figure del tutto anomale nella loro netta e pulita semplicità che a questo punto diventa la stranezza che cattura e che sa di famiglia, di umanità e di vita.
Devo essere sincera che mi hanno colpito la luce accecante di Versailles, gli interni delle case che con i loro mobili riproducono fedelmente i rapporti che vigono tra i vari appartenenti alla famiglia, i finti artifici che esistono nella natura, le atmosfere delle periferie e le piccole cose di poco conto. La vita del pittore Morandi viene ritratta in foto dense di significato ma povere di colori e di forme, al pari delle opere dello stesso pittore: sobrio ma essenziale. Insomma: la voglia di tornare alla radice dell’essere umano, della banalità umana.

Uscite dal padiglione abbiamo risentito forte quella voce “esci dalla mia mente, vai via!”, ci siamo scontrate con statue grottesche ed erotiche al tempo stesso, quadri densi di no-sense fino a trovarci davanti all’apparizione che volevamo: la scritta Auditorium che noi abbiamo interpretato celasse il significato enigmatico del “Bagno” come cassa di risonanza. E così è stato. Siamo uscite di corsa, consapevoli che nella grande confusione contemporanea delle lingue e delle forme comunicative, là dentro, nel Maxxi era conservata una matrice in cui riconoscersi e riassaporare una passeggiata all’aria aperta. 
Miriam Di Carlo





Casa di Morandi

Casa di Morandi






Versailles


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