I miei giornalai di fiducia sono tutti molto simili: hanno
pochi capelli e bianchi ma soprattutto indossano adorabili occhialetti da
presbiti calati sul naso. Saluto Vittorio il meccanico e poi Natale il suo
aiutante, Tonino il parrucchiere e il barista senza-nome, la cinesina che ha
appena partorito una meravigliosa bambina e infine arrivo al giornalaio. Oggi
davanti all’edicola c’è un signore che interviene subito dopo la mia richiesta “La
Repubblica” e mi dice “La Prima, la Seconda o addirittura la Terza?”.
Eh già perché effettivamente per gli storici futuri questo
periodo politico apparirà come un nuovo capitolo della Storia Italiana
contemporanea ed una delle molteplici cause se non la preponderante risulta
essere a mio avviso l’evoluzione tecnologica. L’umanità ho progredito e non è
indifferente che la crisi si faccia sentire in tutti i consumi, persino quelli
di prima necessità ma che non riesca ad intaccare la tecnologia e in
particolare la nanotecnologia.
Ha affrontato l’interrogativo che pone il web, Stefano
Rodotà su un articolo de “La Repubblica” di oggi dal titolo “La democrazia del
web è vera democrazia?” che consiglio vivamente di leggere perché apre a nuovi
spunti di analisi su un processo sfaccettato e multiforme. L’imbarazzo davanti
a questo potere comunicativo e la paura se non la diffidenza nella gestione
della rete già venne palesata da Benedetto XIV: mentre in alcuni movimenti
della Chiesa si diceva che il web fosse strumento perverso ed alienante se non
demoniaco, intanto Benedetto XVI apriva il suo account twitter per comunicare.
Come tutte le cose va trovata la giusta modalità di applicazione e la possibilità
di trarne frutti.
A livello sociale e comunicativo è indubbio che il web
mescoli una buona dose di alienazione data da rapporti virtuali e quindi mai
immediati e concreti (dando spesso l’illusione di non essere soli) a grandi
scambi e dibattiti su tematiche e concetti che alimentano lo scambio più
mentale che fisico. All’interno del web però vige una qualche gerarchia e
sebbene vi sia una falsa o illusoria possibilità di interagire direttamente con
gli alti vertici, esso diventa veramente scambio e interazione nel momento in
cui si crea una situazione intimistica e non di massa come invece può essere un
blog molto frequentato o twitter: infatti le mille e mille voci, proprio per la
grandissima copiosità, si disperdono e alla fine vigono solo le forti personalità
riconosciute tramite la loro indiscussa notorietà. Ma il web porta veramente
con sé una grande rivoluzione data proprio dal fatto che non è un mezzo
passivo, che viene subìto come una tv o un giornale ma dà maggiore possibilità
di scelta, di selezione e di interazione che a volte può risultare efficace,
magari grazie a una buona dose di fortuna ma anche di talento.
Comunque sia, Rodotà affronta l’argomento dal punto di vista
politico e non strettamente comunicativo dimostrando ancora una volta grande
lucidità, adattamento ai tempi e spirito critico.
Così come un’altra grandissima personalità che consiglio a
tutti di approfondire perché merita: Salvatore Settis. Questo signore ha un
Curriculum da urlo ma sono sicura che, come tutti i grandi colti potrebbe tranquillamente
dire “So di non sapere”. Ha stilato ben 15 tesi e oggi presenterà al Teatro
Piccolo Eliseo un evento con Civati e Barca. Riporto le sue tesi che danno una
descrizione efficace e quanto mai valida sulla situazione che stiamo vivendo:
SETTIS - LA CULTURA
SCENDE IN CAMPO. Quindici tesi sull’Italia
di Salvatore Settis
LEFT, 25 MAGGIO 2013
1. La crisi della
democrazia rappresentativa, presente ovunque, è particolarmente grave in
Italia, a causa di due peculiarità del suo sistema politico: la legittimazione
di un leader (Berlusconi) che non avrebbe titolo ad esser tale sia per i
conflitti di interesse che per i reati comuni di cui è accusato, e una legge
elettorale (il Porcellum) iniqua e anticostituzionale.
2. Un governo di “larghe intese”, che capovolge il responso delle urne, aggrava
ulteriormente questa crisi, inseguendo l’impossibile modello di una democrazia
senza popolo.
3. La natura estrema di questa crisi non colloca l’Italia fuori dal contesto
mondiale. Al contrario, ne fa un caso-limite (per ciò stesso esemplare) di
crisi della democrazia. Quello che accadrà in Italia (la vittoria della casta
politica contro l’elettorato, o la riscossa dei cittadini) è perciò di grande
rilevanza nel quadro globale. Grande è la nostra responsabilità.
4. Ingranaggio-chiave della crisi della democrazia è la dominanza dei mercati,
cioè di persone, gruppi di interesse, lobbies bancarie e finanziarie che
determinano il corso dell’economia. Queste oligarchie, in quanto sfuggono ad
ogni controllo democratico, sono la vera e sola “antipolitica”. L'Europa si è
ridotta ad essere il territorio di caccia di queste oligarchie e tecnocrazie, e
le scelte politiche italiane viaggiano con questo «pilota automatico», secondo
la frase di Mario Draghi. Su questa tendenza si sono appiattite in Italia tanto
la destra quanto la “sinistra”, che ha con ciò rinunciato alla propria missione
storica di difensore dei diritti dei cittadini, nascondendosi dietro un passivo
“ce lo chiede l’Europa”.
5. La dominanza dei mercati, con la complicità della politica, genera (in
Italia come altrove) un’ “austerità” che non crea ricchezza, ma la concentra
nelle mani di pochi; pone il lavoro e la dignità della persona al servizio del
mercato; mortifica libertà e uguaglianza comprimendo la spesa e i servizi
sociali; innesca disoccupazione, disagio sociale, emarginazione, povertà.
6. L’anestesia che ci viene proposta come “pacificazione” o “responsabilità”
consiste non solo nell’annientare le differenze fra “destra” e “sinistra”, ma
anche nel chiudere gli occhi davanti ai problemi dei cittadini in ossequio alla
dittatura dei mercati. Questa è stata la base e del “governo tecnico”, fase di
rodaggio delle “larghe intese” oggi all’opera. Ma gli inviti all’amnesia vanno
respinti perché sono contro gli interessi dei cittadini e contro la legalità
costituzionale.
7. Il progetto di “democrazia senza popolo” sussiste perché l’antica funzione
dei partiti come luogo di riflessione e di progettazione è morta. Quel che
resta degli apparati di partito si è trasformato in un macchinario del
consenso, fondato sulla perpetuazione dei meccanismi e delle caste del potere.
8. Una parte larghissima del Paese esprime una radicale opposizione a questo
corso delle cose. Lo fa secondo modalità diverse, anzi divergenti: (a) la
sfiducia nello Stato e il rifugio nell’astensionismo; (b) gesti individuali di
protesta (fino al suicidio); (c) vasti movimenti che si trasformano in partito,
come il M5S; (d) piccole associazioni di scopo, dichiaratamente non-partitiche,
per l’ambiente, la salute, la giustizia, la democrazia. Queste ultime sono
ormai alcune decine di migliaia, e coinvolgono non meno di 5-8 milion di
cittadini. E’ a partire dall’autocoscienza collettiva generata da questo
associazionismo diffuso (ma anche nei sindacati) che si può avviare la
necessaria opera di restauro della democrazia.
9. Queste forme di opposizione “vedono” quel che sembra sfuggire a chi ci
governa: il crescente baratro che si è aperto fra l’orizzonte delle nostre
aspirazioni e dei nostri diritti e le pratiche di governo. Tuttavia, le
associazioni e i movimenti, pur generando anticorpi spontanei alle pratiche
antidemocratiche, stentano a trovare un denominatore comune, un manifesto che
possa tradursi in azione politica.
10. Questo manifesto esiste già. E’ la Costituzione della Repubblica. Essa va
studiata e rilanciata come la Carta dei diritti della persona e della
collettività, che corrisponde in grandissima parte all’orizzonte delle
aspirazioni e agli anticorpi spontanei della protesta.
11. Costituzione alla mano, l’universo dei movimenti e delle associazioni si
può rivelare a un tempo stesso come il sintomo di un malessere e la cura della
democrazia italiana. Sintomo, perché mette allo scoperto il carattere
anti-democratico della politica “ufficiale”. Cura, perché i movimenti sono un
serbatoio di idee, di elaborazioni, di progetti, di riflessioni, nell’esercizio
del diritto di resistenza (che, secondo la Costituzione della Repubblica
Partenopea del 1799, è «il baluardo di tutti i diritti»).
12. Questa forma di resistenza civile in nome del bene comune (che la
Costituzione definisce “interesse della collettività” o “utilità sociale”) va
intesa come adversary democracy : e cioè come l’esercizio pieno della
cittadinanza, che non si esaurisce nel voto, ma si estende a una continua
vigilanza critica e capacità propositiva. Essa non sostituisce la
rappresentanza politica, ma si affianca ad essa, la controlla e la stimola. Non
è contro la democrazia: al contrario, intende salvare la democrazia mediante la
partecipazione dei cittadini, secondo il disegno della Costituzione.
13. La Costituzione non va intesa come una litania di articoli staccati, ma
come una salda architettura di principi, coerente e inscindibile. L’adversary
democracy va esercitata partendo simultaneamente dalla consapevolezza dei
propri diritti e dalla difesa della legalità costituzionale. In nome della
Costituzione vanno rimesse in onore le vittime sacrificali della presente
dittatura dei mercati: le regole della politica e i pilastri del progresso
sociale (politiche del lavoro, welfare state, diritto alla cultura e alla
salute).
14. Nel crepuscolo della democrazia, è possibile, desiderabile, necessario
ripartire dai movimenti per riformare i partiti e i sindacati, per ricreare la
cultura politica che muove le regole.
15. Salvaguardare la Costituzione negando legittimità a qualsivoglia
“Costituente” autonominatasi è precondizione necessaria del ritorno a una piena
democrazia costituzionale. E’ urgente, piuttosto, l’alfabetizzazione
costituzionale dei cittadini, simile a quella promossa dal Ministero per la
Costituente (governi Parri e De Gasperi, 1945-46). Perché «ogni legislatore
dev’esser guidato, sorretto, confortato dalla coscienza del suo popolo» (A.C.
Jemolo).
P.S. Se il M5S avesse sfruttato anche altri mezzi di comunicazione che non fosse il semplice e solo web, come la tribuna televisiva avrebbe avuto maggiore visibilità la propria intrinseca innovazione (nonché le proposte avanzate) e non sarebbe stato bollato come il Movimento dello scontrino.
Miriam Di Carlo.